Abbiamo incontrato il documentarista Pawel Lozinski autore dello straordinario film d’esordio Birthplace (1992) presentato al Festival dei Popoli due anni fa. Ma di questo non parleremo, un motivo in più per affrontare altri argomenti come il «metodo de Barbaro», nonché il suo rapporto con Kieslowski e con il padre Marcel di cui ha deciso di seguire le orme. Sullo sfondo resta la questione di un paese che ha bisogno di affrontare divisioni interne e fare i conti con il proprio passato.

Sono passati vent’anni dall’uscita di «Grate» (1996) il suo primo e unico lungometraggio. Una semplice deviazione di percorso nella sua carriera di documentarista?

È stata una sfida come me stesso. Eppure non mi pento di questa parentesi. Il cinema di finzione richiede una pianificazione dettagliata delle riprese. Volevo provare almeno una volta l’ebbrezza di avere il controllo sul cinema nel suo costruirsi. Quando giro un documentario non so mai quello che può accadere dopo aver accesso la camera. Tutti gli schemi saltano ma bisogna saper fare tabula rasa delle proprie idee per accogliere e valorizzare quello che accade di fronte ai nostri occhi. Almeno per me tutto questo rende il documentario intellettualmente più eccitante del cinema di finzione.

Lei ha fatto da assistente alla regia a Krzysztof Kieslowski nell’ultima fase della sua carriera. Come sono andate le cose tra di voi?

Sono stato sul set di Tre colori – Film bianco (1994). Kieslowski era amico di mio padre. Sono stato io a insistere per collaborare con lui. Forse un po’ ingenuamente pensavo di poter carpire i segreti del mestiere direttamente sul set. Ma i suoi colloqui con gli attori prima delle riprese si svolgevano sempre in disparte. Detto questo, si può immaginare perché il mio contributo al film è stato più tecnico che artistico. Ma ci sono state altre occasioni in cui sono stato più vicino a Kieslowski.

Se non sbaglio Kieslowski ha supervisionato la sceneggiatura del suo «Grate». Che ricordi ha del maestro?

Preciso, laconico, e intellettualmente vivace. E così che lo ricordo. Provava sempre ad ascoltare gli altri. Non mi ha mai detto cosa fare della mia sceneggiatura ma mi faceva molte domande per instillare dubbi sulle mie scelte. Era un maieutico, uno che ti conduceva alla sua verità senza sbatterla in faccia al proprio interlocutore. Aveva sempre un pacchetto di sigaretta nel taschino della sua camicia sul set. «Ancora tu?», mi diceva ogni volta che gli chiedevo una sigaretta durante le riprese, ma poi non me la rifiutava mai.

Kieslowski ha sentito l’esigenza di abbandonare il cinema documentario per passare alla finzione dopo essersi avvicinato troppo ai suoi soggetti. Non pensa che questo possa accadere dopo il suo ultimo documentario «You Have No Idea How Much I Love You?»

Si tratta di un lavoro ibrido che registra da vicino alcuni frammenti delle sedute di psicoterapia di una madre e di una figlia che provano a ricucire e a ridefinire il rapporto genitore-figlio in presenza di uno psichiatra. Mi sono mosso in una terra di mezzo ma il materiale girato è tutto autentico. Ecco perché preferisco definirlo un esperimento cinematografico. Nei miei documentari cerco sempre un rapporto intimo con i miei soggetti senza rinunciare a mantenere una certa distanza da loro.

Nel suo «esperimento» il professor Bogdan de Barbaro chiede uno sforzo semiotico costante alle due pazienti. Esse sono chiamate a trovare delle definizioni del proprio dolore e dei propri sentimenti durante le sedute. Quale è il ruolo della videocamera in questo processo di scavo interiore?

La camera ed io eravamo semplici osservatori del «metodo de Barbaro» nel suo farsi. Mai come in questo caso la camera, anzi le tre camere, si limitano a registrare la realtà. Il mio intervento è ridotto al minimo. Madre figlia e psicoterapeuta sono tutti ripresi in primo piano di sbieco per catturare ogni minima variazione sul volto dei soggetti. I visi sono trattati alla stregua di paesaggi come nel cinema di Bergman.

Anche nel documentario precedente «Father and Son» (2013) è il rapporto genitore-figlio ad essere indagato, e più precisamente, la relazione tra lei e suo padre. Ognuno ha montato la propria versione del documentario. Eppure le differenze tra i due lavori sono minime. Non è forse questo un segno che dopotutto non ci sia una grande distanza tra di voi?

È vero, le differenze nel materiale montato sono minime, una roba da studiosi di cinema o da cinefili. Ma andrebbe spiegato che mio padre ha costruito la sua versione a partire dalla mia e da lui non approvata del tutto. Difficile chiedere al pubblico di andare al cinema due volte per vedere quasi lo stesso film. È un peccato, sarebbe stato bello partire entrambi da zero con il materiale girato. A quel punto sono sicuro che i due film sarebbero stati molto diversi tra loro. Allo stesso modo, credo che il nostro metodo di lavoro si assomigli molto.

«A Woman From Ukraine» (2012) è il ritratto sincero di un’immigrata che vive in Polonia da molti anni. Attualmente nel tuo paese vivono almeno un milione di ucraini. Crede che il cinema documentario possa aiutare ad accettare l’Altro?

Questa signora vive ancora in Polonia. Ho provato a raccontarne il senso di separazione e la solitudine che di solito vivono le persone emigrate all’estero. Il cinema può offrire un percorso di conoscenza dell’Altro aiutandoci così ad accettarlo, che si tratti di un immigrato o di un profugo. I cineasti polacchi dovrebbero trovare il coraggio di affrontare questa tema più spesso, mai come adesso così urgente.

Alcuni dei suoi film sono stati girati senza troupe cinematografica. C’è un motivo perché di solito preferisce fare da tutto sé?

È tutto vero ma non è dovuto ad una mancanza di fiducia negli altri. In effetti ci sono alcuni progetti in cui la presenza degli altre persone può interferire con le riprese inibendo o comunque influenzando le reazioni dei soggetti filmati. Per quanto possibile nei miei documentari cerco di non violarne l’intimità. Da questo punto di vista, anche la videocamera non è altro che un intruso in piena regola. Sogno di fare cinema un giorno senza dover utilizzare nessuna apparecchiatura. Sembra un paradosso ma con i progressi tecnici la progressiva smaterializzazione del cinema sta diventando realtà.

Cosa intende quando afferma che le Polonia dovrebbe serdersi sul lettino dello psicoanalista?

I polacchi dovrebbero risolvere i propri conflitti interni attraverso un dialogo aperto. La società polacca è polarizzata da una guerra «polsko-polska» (conflitto ideologico nella società polacca ndr) che sta diventando sempre più drammatica. Mai come ora siamo divisi e la classe dirigente del partito della destra populista Diritto e giustizia, ci marcia sopra cercando di ottenere il consenso dei cittadini attraverso programmi di assistenza sociale come 500 Plus (sussidio mensile di 500 zloty offerto a tutte la famiglie con più di un figlio ndr). Sederci sul lettino potrebbe aiutarci ad affrontare i nostri problemi. Nella psicoanalisi non c’e spazio per il concetto di peccato. Ma viviamo in una società cattolica e in molti preferiscono andare dal prete. Non so quanto questo possa davvero aiutarci ad affrontare il nostro passato.