Nei giorni scorsi Fabrizio Barca ha presentato gli esiti del percorso iniziato un anno e mezzo fa: dopo un periodo intenso di incontri in giro per l’Italia, sono stati selezionati alcuni progetti proposti da alcuni circoli del Partito Democratico ed è stata promossa una raccolta di fondi per sostenerli. Nel corso degli ultimi dodici mesi, questi progetti si sono, più o meno efficacemente, realizzati e un documento finale (www.luoghideali.it) tira oggi le conclusioni. Questi progetti locali («luoghi ideali») avevano l’obiettivo di mostrare, semplicemente, che un «altro partito è possibile».

L’idea di partito, presentata nel saggio inizialmente elaborato da Barca, andava certamente controcorrente, rispetto alle tendenze e alle pratiche dominanti, e certo anche per questo ha suscitato attenzione e interesse: un’idea di partito, cioè, come struttura associativa, cementata da una comune visione di valori e programmi, che non si identifichi con la dimensione istituzionale ed elettorale, ma anzi svolga un ruolo essenziale come elemento di raccordo critico e autonomo tra la società e le istituzioni. Ma, soprattutto, un’idea di partito che muoveva da un’ispirazione teorica innovativa: un modello di «sperimentalismo democratico» e una concezione della democrazia come partecipazione diffusa, creativa e conflittuale, alla costruzione delle politiche.

La parola d’ordine della «mobilitazione cognitiva» significava esattamente questo: nelle nostre società non è più pensabile (non è giusto in linea di principio, ma non è nemmeno efficace sul piano pratico), che i saperi e le competenze necessarie al farsi di una «buona politica» siano concentrabili e racchiusi nella testa di alcuni «decisori», siano essi dei leader carismatici o dei freddi tecnocrati.

Governare democraticamente, oggi, implica la valorizzazione delle conoscenze e delle esperienze diffuse nella società, la partecipazione attiva di coloro a cui le politiche sono destinate, una legittimazione democratica che può venire solo da un processo inclusivo, da un’ampia discussione pubblica, al termine della quale solamente una decisione può dirsi compresa, valida socialmente, e accettata anche da coloro che magari non la condividono, ma che però hanno avuto modo di far valere le proprie opinioni.

Tutto l’opposto, come si vede, da un’idea di democrazia come mera autorizzazione al comando: e una lettura della cosiddetta «crisi della democrazia» non come inceppamento della «governabilità» (a cui reagire con un surplus di decisionismo), ma come crisi di legittimazione (a cui si può far fronte solo attraverso una deliberazione pubblica e democratica).

La scommessa di Barca, e di quanti lo hanno aiutato nel suo tentativo, è stata quella di trasporre questa idea di democrazia e di partecipazione anche nella vita e nel modello organizzativo di un partito come il Pd: giudicato, comunque, come uno spazio ancora aperto, ricco di potenzialità. Certo, nel frattempo, rispetto al momento in cui questa proposta è stata lanciata, molta acqua è passata sotto i ponti: il Pd ha visto un processo accelerato di normalizzazione «renziana» e, soprattutto, molte delle forze disponibili o interessate, se ne sono andate o si sono disperse.

Barca, saggiamente, ha evitato di farsi invischiare nelle dinamiche correntizie o di fare egli stesso il «capo-corrente»; questo atteggiamento, agli occhi di alcuni, è parso un po’ intellettualistico, poco realistico; però, forse, si potrà rivelare, a conti fatti, come il più produttivo (peraltro, il know how del «metodo» proposto da Barca si è rivelato una risorsa quando si è trattato di capire e valutare quanto accaduto nel Pd romano).

Il documento conclusivo del progetto «luoghi idea(li)» non si nasconde le difficoltà: il giudizio sullo «stato del partito» è molto severo, non è edulcorato, ma evita di trarre conclusioni liquidatorie. E ricava alcune proposte operative: l’impressione, tuttavia, è che queste somiglino molto ai classici messaggi nella bottiglia, lasciati alla deriva di un mare tempestoso. Da una parte, si propone che il metodo sperimentato sia fatto proprio dal partito in quanto tale, e finanziato dal partito, attraverso meccanismi di «bandi» interni, che premino e valorizzino le buone pratiche di «attivismo territoriale»; dall’altra parte, si propongono alcune misure di attuazione e/o correzione dello Statuto che potrebbero avere, se accolte, un impatto dirompente: prima fra tutte, la distinzione e la incompatibilità tra cariche elettive ed esecutive ed incarichi di partito; e poi, una vera «implementazione» del famoso «albo degli elettori», chiudendo le iscrizioni tre mesi prima lo svolgimento delle primarie; l’elezione dei segretari regionali affidata agli iscritti e non alle primarie; proposte sul finanziamento del partito; la conferenza programmatica annuale; o, ancora, altre proposte apparentemente minori, tra cui quella di istituire un centro di formazione e di cultura politica del partito in quanto tale (per non lasciare il campo alle varie «fondazioni» o associazioni legate a questo o a quel leader: frutto velenoso di una malintesa concezione del «pluralismo» che ha minato, sin dalle origini, la possibilità di costruire una vera e condivisa identità politico-culturale del partito).

Proposte interessanti: ma, a questo punto, affidate solo alla possibilità che Matteo Renzi sia, improvvisamente, colpito da una sorta di «ravvedimento operoso»: che, insomma, mosso dal suo istinto camaleontico, riscopra la necessità di avere un partito degno di questo nome e che dia seguito alle battute consegnate alcuni mesi fa ad un’intervista («ritornare a un partito in cui essere iscritti significhi contare nelle scelte»).
Si può essere più o meno ottimisti, a tal proposito; ma sarebbe tuttavia sbagliato circondare di uno scetticismo aprioristico l’idea che il gruppo dirigente del Pd raccolto attorno a Renzi possa aprire un processo di riforma di questa portata: le difficoltà messe in luce dalle recenti elezioni regionali sono molto più pesanti di un normale «campanello d’allarme». Il Pd può ancora contare su percentuali ragguardevoli, ma è un gigante su basi d’argilla: non si può fare affidamento solo sulle (presunte) capacità comunicative di un leader. In tempi procellosi, con una volatilità elettorale inedita nella storia politica italiana, tutto può succedere, se il consenso non viene faticosamente costruito e consolidato da un partito.

La vicenda della “Buona Scuola” è davvero emblematica: la riprova che non basta apparecchiare dall’alto una campagna di «consultazione». Se le «riforme» non sono discusse e vissute attraverso un vero processo di protagonismo sociale diffuso, restano sulla carta, nella migliore delle ipotesi, o producono reazioni di rigetto. E non c’è «lavagnetta» che tenga, illudendosi che sia solo un problema di «comunicazione».
Vedremo cosa accadrà: certo, questo «metter mano» al partito può significare varie cose. Ad esempio, come adombrato in vari commenti post-elettorali, si può pensare che il problema sia solo quello di una «normalizzazione» accentratrice, o che – per Renzi – il problema sia solo quello di «far fuori» i cacicchi locali, insediando dei propri fedelissimi.

Una diagnosi sbagliata, perché uno dei punti di forza del renzismo, sino ad oggi, è stata proprio la pratica di un modello di partito in franchising o «neo-feudale»: mani libere in periferia, in cambio del consenso alla leadership centrale. Altra cosa, e ben più faticosa, la ricostruzione di gruppi dirigenti locali, radicati e legittimati, sensori reali di quel che accade nella società italiana, autonomi e in grado di essere interlocutori critici del «centro» ma, nello stesso tempo, chiamati a rispondere dei loro comportamenti.

Insomma, nei prossimi mesi, il destino delle proposte avanzate da Barca sarà una decisiva cartina di tornasole: o si apre un difficile e salutare scontro politico nel Pd, o – se cadranno nel silenzio – avremo la conferma che è un partito oramai «perso», irrecuperabile…

Non foss’altro che per questo il progetto di Barca merita di essere considerato un tentativo coraggioso e meritorio.