Le immagini d’epoca in bianco e nero della Coppa del Mondo 1958 aprono questo film dedicato al più famoso giocatore di calcio di tutti i tempi (qui anche in veste di coproduttore e in un cameo, quindi molto vicino alla filosofia generale della pellicola, una biopic, una storia avvincente per incuriosire le giovani generazioni e mandarle a cercare azioni e gol su Youtube, ripetendole alla Playstation).

La scelta ambiziosa e vincente dei registi, i fratelli Jeff e Michael Zimbalist (autori di Favela Rising, sulla violenza degli slum di Rio e sul potere liberatorio della musica), è di concentrarsi sull’ascesa di una superstar, in grado di passare dalla povertà assoluta alla gloria internazionale in soli diciotto mesi (perciò il titolo originale Pelé: birth of a legend).

Su quelli e sulle stagioni precedenti di un bambino che giocava scalzo in campetti improvvisati con una palla fatta di stracci e con la stoffa delle tende per maglietta.

Il suo soprannome, Pelé, nasce un po’ per caso, durante un torneo di ragazzi ma Edson Arantes do Nascimento veniva chiamato Dico in famiglia e dagli amici della zona, la piccola cittadina di Bauru, nello stato di Minas Gerais, dove la lussureggiante vegetazione fa contrasto con la povertà della coppia, la madre Celeste (Mariana Nunes) cameriera e il padre Dondinho (interpretato dal cantautore Seu Jorge), calciatore anche lui, fermato da un infortunio e ora inserviente in un ospedale, che insegna al figlio a palleggiare col mango, a divertirsi nelle partitelle, a provare rovesciate e funambolismi.

Proprio il creativo direttore della fotografia Matthew Libatique (collaboratore di Darren Aronofsky e Spike Lee, regista di tanti videoclip musicali) sceglie di puntare sulla sensazione del movimento, su colorate sequenze dall’alto e poi ravvicinate, sui dettagli delle triangolazioni per illustrare l’innocenza originaria del futebol, quella carica di piacevole agonismo, il bellissimo sport preferito.

Al di là di qualche inevitabile stereotipo nella squadretta di pulcini (con l’occhialuto e il ciccione, le marachelle quotidiane e un avvenimento drammatico), il giovane talento viene molto apprezzato da un osservatore del Santos ma la sua famiglia ci metterà tempo per lasciarlo andare nella scuola calcio bianconera dove si proverà a raffinare le straordinarie qualità tecniche del «ragazzo che ha negli occhi la luce del gol».

Shockati dalla sconfitta nella finale del 1950 contro l’Uruguay, il Maracanazo, i tecnici verdeoro puntano a schemi tattici rigorosi ed equilibrati, sulla falsariga delle nazionali europee.

Invece lo stile di gioco, personale e intuitivo, di Pelè (Leonardo Lima Carvalho da bambino e Kevin de Paula da adolescente) con gran repertorio di finte ed estrema agilità rievoca la ginga, l’eredità degli schiavi africani della comunità nera brasiliana, un’espressione gioiosa e popolare, legata alla forte spiritualità, l’abilità dei ballerini di samba mischiata con lo stile di combattimento della capoeira.

Pensato come omaggio alla World Cup 2014, disputatasi in Brasile, ma finito in ritardo, il film rievoca il difficile clima internazionale, tra brevi sequenze d’epoca e dichiarazioni forzate (e un po’ inventate per condire la vicenda), che accompagna la Seleçao nel torneo iridato.

La sequenza travolgente è nello storico hotel di lusso di Stoccolma, prima della finale, con tutta la squadra che esegue veroniche, rabone, tunnel e giocate di sponda tra i corridoi e la cucina dell’albergo (fin troppo somigliante allo spot promozionale Nike Airport ’98, quello con Ronaldo e Romario che ingannano l’attesa in aeroporto con tiri al volo, stop impossibili tra doganieri e turisti).

Ecco così la consacrazione della perla nera, circondato da iniziale scetticismo poi diventato affetto planetario, che vince il suo primo mondiale a 17 anni – il più giovane giocatore ad aver vinto una World Cup, record ancora imbattuto – segnando due reti nella finale contro la Svezia che lo fanno diventare O rey.

Dribbling sorprendenti, intuizioni pazzesche e fantasia infinita: il gioco di Pelé ha incantato milioni di tifosi e le combinazioni vincenti – rifatte sulla scena – hanno ancora una notevole freschezza, una capacità d’entusiasmare, una sorprendente inventiva tanto che quella formazione del Brasile (con Garrincha, Didì Vavà mentre le riserve erano Sani e Altafini) verrà mandata a memoria da tante generazioni future.

«Non potrò mai dimenticare il 1958, l’anno in cui sono diventato Pelé» dice l’attore sui titoli di coda che mostrano gli usurati filmati originali di quell’edizione.