Dietro la patina di un’apparente severa ma pacata risposta cosa si nasconde? Chi si occupa di Cina sa che l’«uscita» di Trump, nella quale ha ufficializzato la telefonata con la presidente di Taiwan, non può essere un fatto preso alla leggera da Pechino. I dirigenti del partito comunista, quasi sempre controllati nelle loro reazioni, non sopportano tre argomenti in particolare, ovvero quelli che mettono in discussione la propria sovranità su Taiwan, Tibet e Xinjiang.

Il neo presidente americano ha toccato dunque uno dei tasti più bollenti dei rapporti tra Stati uniti e Cina. Secondo i media cinesi avrebbe pesato, nella sua spavalderia nell’annunciare la telefonata con Tsai, la sua inesperienza. Secondo il Global Times, quotidiano filo governativo che spesso usa toni accesi contro le potenze straniere «Trump non ha familiarità con i rapporti internazionali e in campagna elettorale non ha giocato nel rispetto delle regole. Prima dell’insediamento ha margini di manovra. Rispondendo alla telefonata della taiwanese Tsai forse vuole testare la reazione della Cina per vantaggi negoziali». Parere dei media, che non è detto sia condiviso dalla leadership, che conosce bene alcuni elementi imprescindibili nella valutazione del caso.

Dalle parti di Zhongnanhai sanno bene ad esempio che alcuni consiglieri di Trump, ad esempio, sono degli accaniti difensori di Taiwan in Asia e anzi vedono la «carta Taiwan» come la prima da giocarsi nel calcolato rischio di competizione con la Cina in Asia. Come ricordato da Evan Osnos sul New Yorker, John Bolton ex ambasciatore Usa alle nazioni unite, nel gennaio scorso sul Wall Street Journal, aveva invitato l’amministrazione americana proprio a incontrare la controparte taiwanese, per dare un segnale forte di impegno nella regione da aprte di Washington.

Chi di sicuro aveva tutto il vantaggio a scatenare la crisi internazionale era Taipei. In difficoltà economica e con la necessità di riallacciare appena possibile buoni rapporti con la nuova amministrazione americana, l’entourage di Tsai ha giocato con grande intelligenza questa mossa. Sono anche emersi i grandi interessi economici che Trump ha sull’isola: la sua azienda di famiglia sarebbe interessata ad investire sull’isola che Pechino considera «ribelle».

Ma il partito comunista cinese sembra preoccupato più per il futuro, che per l’immediatezza di questo sgarbo.

Il problema che si pone è infatti in relazione al tipo di rapporti che gli Usa terranno nel futuro e nel confronto della Cina. Il sospetto è che Trump possa essere inaffidabile o imprevedibile: due caratteristiche che piacciono poco alla leadership cinese.

Nel frattempo, spunta un nuovo nome nella rosa dei candidati al posto di segretario di Stato nell’amministrazione Trump: si tratta di John Huntsman, ex governatore dello Utah ed ex candidato alla Casa bianca nel 2012, ma più di tutto ex ambasciatore degli Stati uniti a Pechino, in grado di parlare in maniera fluente il mandarino.

Lo ha reso noto l’Associated Press, secondo cui sarebbero ormai fuori gara sia l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani sia l’ex governatore del Massachusetts Mitt Romney. Resterebbero invece ancora in gara l’ex generale e direttore della Cia David Petraeus e il senatore del Tennessee Bob Croker.