La nutrita antologia di biografie letterarie, curata da Alexandre Gefen per Gallimard nel 2014, Vies imaginaires, ha sancito il definitivo superamento del discredito in cui le scritture biografiche erano state tenute dalla cultura francese del secondo Novecento – mentre in area anglosassone gli anatemi strutturalisti non hanno mai impedito il successo dei racconti di vite (più o meno) immaginarie. Il sottotitolo dell’antologia, De Plutarque à Michon, ne segna gli estremi cronologici, accostando Plutarco a un classico contemporaneo, Pierre Michon, il cui esordio, nel 1984, con Vies minuscules, ha propiziato la svolta da cui sono nati alcuni fra i migliori libri francesi degli ultimi decenni – quelli di Pierre Bergounioux, di François Bon, di Laurent Mauvignier.

Negli archivi di qualche editore italiano si conservano verosimilmente i pareri di lettura che impedirono a suo tempo la traduzione di Michon; e sarebbe interessante verificare quali pregiudizi abbiano negato al pubblico italiano l’assoluto capolavoro che finalmente Adelphi manda in libreria, nella versione di Leopoldo Carra, Vite minuscole (pp. 204, euro 18,00).
Il libro è composto di otto brevi biografie i cui protagonisti, quasi tutti originari dell’aspra provincia limosina, incrociano in momenti diversi il percorso di un narratore autobiografico. E certo, a un primo sguardo, Vite minuscole sembra mescolare il romanzo di formazione di un artista, la cui tormentata iniziazione alla scrittura occupa uno spazio crescente, con l’epica in negativo dei derelitti, degli sbandati, delle esistenze abortite ai margini della storia. Motivi, entrambi, già nel 1984 inflazionati, se è vero che la microstoria, dalle «Annales» in poi, ha legittimato il racconto di quelle Vite di uomini non illustri che avrebbero dato il titolo, nel 1993, a un bel libro di Giancarlo Pontiggia; e che la Bildung dello scrittore, con proustiano corollario mirato a identificare «la vera vita» con la letteratura, è topos già romantico, che poi attraversa l’intero Novecento.

n topos iperbolicamente riaffermato, nelle Vite minuscole, da una scrittura che nelle pieghe di ogni pagina, nel tessuto fittissimo delle metafore, nella vorticante densità di uno stile letteralmente mozzafiato (come l’amato Conrad, Michon non dà respiro al lettore), dissimula, o esibisce, una mole straripante di riferimenti culturali. Sono frequenti gli inserti poetici, estrapolati soprattutto dal prediletto Rimbaud, cui Michon ha dedicato un intenso ritratto, Rimbaud il figlio, del 1991 (tradotto nel 2005 dall’editore Mavida di Reggio Emilia). Si moltiplicano le allusioni romanzesche, fin dalle prime righe, che evocano scenari «a est di Suez», con trasparente allusione a Kipling, il cui Uomo che volle farsi re offre l’unico possibile termine di paragone alle ambizioni sproporzionate e pietose, umanissime nella loro dismisura, del narratore e dei suoi personaggi.
In aperta polemica con l’estenuazione «grevemente sperimentale» del romanzo francese degli anni Settanta, i modelli narrativi di Vite minuscole sono infatti anglosassoni: Kipling, Conrad, e soprattutto quel Faulkner che è, per Michon, «l’inconcepibile bocca della letteratura, in persona, che parla». Non sono meno numerosi, infine, i riferimenti pittorici, in un’osmosi continua, che rapprende la descrizione realistica di una regione impervia, o di personaggi dall’oscura vitalità, nella fissità enigmatica di un paesaggio di Cézanne, o nell’inquietante chiaroscuro dei ritratti di Rembrandt; viceversa, si sciolgono in creaturale palpitazione le linee e i colori di ogni quadro evocato (vite di pittori danno materia all’altro libro di Michon fin qui tradotto in Italia, da Guanda nel 1994, Padroni e servitori).

Questo citazionismo in apparenza postmoderno era destinato a maldisporre i fautori di un ingenuo «ritorno alla realtà»; mentre la rinuncia di Michon a ogni velleità di sperimentalismo formale, l’indefettibile fedeltà alla «lingua morta» della tradizione, gli alienava i favori delle nuove avanguardie. E «il demone dell’Assenza», l’ossessione del «bianco ostinato della pagina», che contagia il mondo «cancellando ogni cosa», quella che lo stesso narratore – senza mai veramente disconoscerla – definisce la «grottesca teologia» della Parola letteraria, potevano indurre a relegarlo fra gli emuli attardati di Mallarmé o di Blanchot. E in parte è vero: nemmeno nel momento in cui proustianamente riscatta, come materia dell’Opera, il tempo perduto in vane ribellioni, in alcol e droga (Vite minuscole è anche un libro feroce sulla generazione del Sessantotto), e insieme le origini provinciali, le «famiglie incrinate» (l’originale dice zolianamente fêlées, ‘tarate’) della più derelitta campagna, nemmeno allora il narratore rinuncia alla sua «unica passione», alla fede laica nell’ipotesi del «miracolo», di una parola capace di fare argine alle devastazioni del tempo. Michon non ignora, nella sofferenza dei corpi, «una necessità più forte della parola», ma rivendica alla letteratura il compito insostituibile di dire «l’essenziale»; e nella lotta con la pagina bianca rivive l’umiliazione degli avi illetterati, cui un «materiale linguistico troppo limitato» ha precluso la sublimazione artistica.

Perciò di un umile figlio di contadini ottocenteschi, cacciato di casa dall’ira paterna, può fare un doppio di Rimbaud (e di se stesso); e il padre collerico può trasformarsi in un enigmatico affabulatore, che imbastisce per il reietto, a compensazione della definitiva assenza, un romanzo di emigrante di successo – smentito, forse solo ipoteticamente, dalle dicerie di chi lo fa ergastolano in patria.
Sempre «avvezzo alle folgoranti ellissi delle lingue classiche», il passo narrativo di Michon procede per scorci e accelerazioni, moltiplica ipotesi, illuminazioni, smentite. E alimenta con testarda speranza il sospetto che l’«essenziale» possa disertare il mondo degli accadimenti reali per sedimentare nel racconto. Eppure, che il primum della scrittura di Michon sia esistenziale, incistato nell’opaca, indicibile creaturalità dei corpi sofferenti, lo mostra, al centro del libro, la Vita del vecchio Foucault, che non a caso ha «il cognome di un filosofo alla moda», e che rifiuta di andare a Parigi a farsi curare un cancro, semplicemente perché è analfabeta; e lo conferma nelle ultime, meravigliose pagine, la Vita della bambina morta, sorella maggiore del narratore. È l’urgenza disperata di penetrare il suo dolore «senza linguaggio», la sua agonia «per sempre incomprensibile», a segnare la vocazione dell’io; è il grumo di dolore originario, che impone di «scrivere così come un bambino senza parole muore», e dà l’abbrivio alle Vite minuscole.

Allo stesso modo, è la latitanza del padre, in un universo rurale dominato da indimenticabili figure femminili, a costituire il bruciante paradigma di ogni assenza letteraria: cosicché quello di Michon potrà apparire, senza contraddizione, postmodernismo etico, che nel culto della parola esatta, con l’ostinazione inerme di un «ateo poco convinto», con le armi splendide e spuntate di uno «stile appropriato», combatte con abnegazione la morte e l’oblio.

Tradurre questo stile chiedeva altrettanta abnegazione: per non tradire l’esattezza del lessico, per mimare l’intensità della dizione. Leopoldo Carra c’è quasi sempre riuscito, e l’ammirazione per il suo lavoro non è intaccata da qualche minima imprecisione. Invece stona la postilla, che dichiara nel titolo «la superfluità delle note al piede», rivendicando a Vite minuscole l’alchimia capace di generare una «lega senza scorie», e di rendere perciò inutili le agnizioni intertestuali. In realtà, solo nel dialogo ininterrotto con l’intera enciclopedia della letteratura occidentale, può balenare, precario e ipotetico, il senso del libro; e solo un sobrio apparato di note può conferire allo scrittore il rango che gli compete: quello del classico.

Lo sa bene l’emulo migliore di Vite minuscole, Davide Orecchio, che nelle sei «biografie infedeli» di cui si compone il suo Città distrutte (Gaffi, 2012), a corredo del racconto romanzato della vita di persone reali, dispiega una cospicua annotazione d’autore. Non per ingenuo scrupolo documentario, né per confondere realtà e finzione, ma per rendere evidente la compenetrazione di vita vera e immaginazione, di storia e letteratura; e per ribadire l’insufficienza ontologica dell’una e dell’altra: dell’esistenza che non accede alla parola, dell’opera che non è carne, sangue, vita – e questa è anche la lezione, d’inalterata attualità, di Vite minuscole.