Fra le molte iniziative promosse per celebrare il centesimo compleanno di Pietro Ingrao ce ne è una singolare e molto interessante che avete ancora tempo di fruire, almeno fino al prossimo 10 maggio, a Roma. Si tratta della mostra di ritratti che a Pietro sono stati fatti in due tornate – nel 1984 e nel 1994 – da Alberto Olivetti, ma non ci sono solo questi dipinti. Nelle sale del Casino Nobile di Villa Torlonia si trovano infatti molte più memorie e i quadri stessi sono assai di più che quadri. Vi racconto perché.

C’entrano, nella storia – e qui ci sono i documenti che la ricordano – anche due personaggi assai noti, per ragioni diverse, al Manifesto: Rossana Rossanda e Franco Fortini, a lungo straordinario collaboratore di questo giornale. Rossanda e Fortini, due interlocutori di Ingrao nel corso degli anni. In mostra, un ritratto di Rossana, eseguito nel lontano 1981 a Ginostra, nell’isola di Stromboli, dove Alberto ha molto lavorato al paesaggio marino che si apre a chi guarda da quell’arroccamento di case sotto il vulcano. Rossana era lì in vacanza e poi, ispirata dalla natura ma anche da quei dipinti, scriverà su quell’isola un pezzo per il giornale restato famoso; vinse anche un premio letterario/giornalistico.

Scrive Rossana ad Alberto rientrata a Roma dopo il soggiorno a Ginostra (e la lettera manoscritta si può leggere in una bacheca della mostra): sono stata – dice – qualche giorno con il tuo quadro, ma ora che sono restata sola con il mio ritratto, la sua osservazione suscita in me una inquietudine profonda: perché rivela di me cose che mi fanno paura.

La confessione di Rossana è una spiegazione di cosa sia la pittura, non morta dopo la nascita della fotografia, perché la pittura, se è arte (e non sempre lo è) è in realtà uno strumento di conoscenza molto più raffinato, più introspettivo, espone anche quello che non si vede ma solo si intuisce, dà conto di un non rivelato, allude, apre gli occhi non solo sull’oggetto ritratto, ma sulla sua relazione con il mondo. Nella fotografia c’è sopratutto un oggetto, l’obbiettivo, nel quadro c’è il pennello, e cioè la mano di un soggetto. Nel dipinto c’è anche quanto quel soggetto riesce a capire del contesto che non si vede.

In relazione con il mondo

Si può dire che la lunga serie di ritratti a Piero Ingrao, seduto a guardare le sue carte, in posa per settimane nell’atrio antico della sua casa di Lenola – non scatti dunque, ma osservazione, dialogo muto, presa d’atto dell’intimo, del detto e del non detto – siano stati – nell’estate del 1984 – il compimento di quanto era accaduto ad Alberto nel ritrarre Rossana, quello che lei stessa ne dice.

Quando questi ritratti verranno esposti per un solo giorno, prima e unica volta, nell’atrio dell’Auditorium della Musica, il 30 marzo del 2005, in occasione del novantesimo compleanno di Ingrao, Rossana scriverà una lunga introduzione al catalogo (è riprodotta nei pannelli della mostra e nel prezioso volume «Per un ritratto di Pietro Ingrao» stampato adesso per le edizioni Ediesse). Ci dice quel che, come in quel suo ritratto del 1981, ha visto, nel 1984, a Lenola, nei dipinti che Alberto stava facendo: un Piero Ingrao che non è solo il settantenne amatissimo dirigente del Pci e presidente della Camera, testimone e protagonista di primo piano di quarant’anni di storia repubblicana, ma una immagine che «rileva una qualche umana nudità», fa intravedere anche le sue angosce, i suoi dubbi, in una vigilia di temperie che stanno per cambiare tutto.

Sembra quasi si possa già intravedere in quei ritratti il poeta che Ingrao ha deciso, allora, di concedersi di essere. «In quei ritratti Alberto Olivetti – scrive Rossana – traduce un Pietro Ingrao in concentrazione, sospensione, dubbio. Stati della mente e del cuore, curioso “vero”. Concentrata è l’immobilità della testa, il suo solido stare sulle spalle… mentre il dubbio folgora nell’apparire d’un occhio, anzi di un’orbita fosforescente che ti inchioda. Perché il dubbio di Ingrao non è una fuga agevole dal mondo, come per lo più praticato oggi, è una domanda lancinante sul come starci. Dubbio è anche solitudine, e sola è la figura che campeggia in tutti i ritratti, senza sfondi, senza parlare che con sé e in un vuoto. Sono raramente quiete, queste immagini di momenti di quiete. Questa inquietudine, quella di un agire sempre interrogandosi e di un interrogarsi sempre per agire, è il segno che in molti di noi Pietro Ingrao ha lasciato una volta per sempre. Lo “spazio della pittura” di Alberto Olivetti è, stavolta, questo».

E poi, lungo il percorso, arriva Franco Fortini. Con Ingrao, come racconta in Volevo la luna, si conobbero nel 1941, quando erano entrambi militari. Un suo ritratto, eseguito da Olivetti nel 1989 lo si vede accanto a due lettere. Danno conto di quanto è accaduto nel frattempo, delle poesie che Pietro si è deciso a scrivere, la prima raccolta nel 1986, Il dubbio dei vincitori, poi altre. Le lettere di Fortini a Olivetti riguardano la redazione di Conversazione su «Il dubbio dei vincitori». Si tratta di un dibattito fra Fortini stesso, Scalia, Ingrao e Olivetti svoltosi presso l’Università di Siena. Un tema quello del rapporto tra politica e poesia che nel libro-catalogo pubblicato ora è ripreso dal lungo colloquio fra Olivetti e Ingrao, che si è svolto nel tempo, a più riprese, tardi, fra il 2009 e il 2011, intramezzato dai versi, che rileggono assieme, commentandoli. Fra questi le due righe famose: «Pensammo una torre./ Scavammo nella polvere». «Una poesia sul significato del comunismo» – dice Pietro, con amarezza. «Una torre è la verticalità della rivoluzione… è l’assalto al Palazzo d’Inverno. Scavammo nella polvere, semplicemente: mancammo la rivoluzione». «È quanto mi è successo: abbiamo sbagliato, però siamo stati al centro di una grande opera, di una grande vicenda».
I ritratti di dieci anni dopo, quelli del 1994, non sono di Pietro, sono delle sue poesie. Anche i versi possono esser ritratti, e qui i versi de L’alta febbre del fare, la seconda raccolta di Ingrao pubblicata da Mondadori quell’anno, completano il quadro.

La poesia, Ingrao poeta, possibile? Non è una fuga dall’impegno, un rifugio della vecchiaia, un ripiegamento dopo la sconfitta? La poesia non può cambiare il mondo, e allora? «No – ragiona Ingrao in certe densissime notazioni che si leggono in Coniugare al presente, il volume pubblicato da Ediesse che raccoglie suoi scritti degli anni cruciali dal 1989 al 1993 – la poesia non può se crede di poterlo fare da sola; sì, se crede che possa aprire a una conoscenza ulteriore».

Poesia e politica

I ritratti, di Pietro e delle sue poesie, esposti a Villa Torlonia danno conto del suo universo. Qualcuno ha ironizzato nel dire che si voleva far passar Pietro per un poeta minore del ’900, cancellando il fatto che era stato un grandissimo leader comunista. Si può invece rovesciare il discorso e dire che è un amatissimo leader comunista perché è anche un poeta, una qualità che gli ha dato uno sguardo in più.

Andate dunque a Villa Torlonia. I dipinti , ove quel corpo si mostra abbandonato, quasi slogato, allungato sulla sabbia di Sperlonga, che allude a una scomposizione della persona, le sue parti che configgono tra loro. Come è di fatto l’umano di Pietro. Sono, quei ritratti guardati in sequenza, le grandi carte come i piccoli schizzi preparatori appuntati su un taccuino, «biografie dipinte» rinascimentali. Bellissime.

Oltre alle moltissime foto scattate da Sergio Castellano mentre quei quadri venivano dipinti, con Ingrao in posa e Olivetti al cavalletto, ci sono persino due foto di Pietro a un anno, con la madre e altre donne di casa. Fra queste la tata di Pietro, Civita Colantone, la Tella di una delle poesie de L’alta febbre del fare. E il «Ritratto di Civita Colantone a ottantotto anni», un piccolo olio su tavola esposto in una sala del Casino dei Principi, ci dice quale presenza preziosa sia stata Tella nella vita di Pietro Ingrao.