E se Camera e Senato dovessero dare due esiti diversi nell’elezione diretta del premier? Magari grazie al voto delle circoscrizioni Estere? O anche: se gli esiti delle circoscrizioni estere ribaltassero quelli degli italiani che vivono in Italia? O ancora: se in una o in entrambe le Camere il candidato più votato non avesse poi la maggioranza dei seggi in Parlamento?

Sono le domande a cui gli sherpa del ministero delle Riforme si stanno scervellando per dare risposte in questi giorni, senza peraltro riuscirci, visto che il baco nel sistema è l’elezione diretta stessa. Ma sono anche domande che dovrebbe porsi l’opinione pubblica – e non solo gli specialisti – obnubilata dalla cortina fumogena della propaganda del «decidono i cittadini», o meglio «decidono gli italiani» per dirla melonianamente. Ma andiamo a dare conforto ai poveri sherpa della ministra Maria Elisabetta Casellati.

È vero che sono basse le possibilità che Camera e Senato diano esiti elettorali difformi, visto che dopo la riforma approvata nella scorsa legislatura gli elettori sono gli stessi. Tuttavia non è impossibile, visto che è diverso l’elettorato passivo (per candidarsi al Senato occorrono 40 anni), e visto che candidature indovinate o sbagliate possono produrre quello che già oggi avviene in piccole fasce di elettori più sofisticati: vale a dire due opzioni diverse per Camera e Senato. Tutti i meccanismi istituzionali devono poter prevedere una clausola di salvaguardia, cioè una soluzione anche agli esiti improbabili.

La prima ipotesi studiata al ministero è stata quella della Scheda unica, per la Camera e per il Senato. Al netto della difficoltà tecnica della scheda-lenzuolo (con rischio di ricorso contro di essa per la sua illegibilità/incomprensibilità) la soluzione da sola non evita il rischio di un voto difforme per i due rami del Parlamento.

Una ulteriore ipotesi è stata quella del voto al solo candidato premier che traina poi quello per Montecitorio e palazzo Madama. Una soluzione costituzionalmente illegittima, perché la nostra Carta prevede per i cittadini il diritto di eleggere i propri parlamentari (confermato nella sentenza 1/2014 della Consulta che bocciò il Porcellum). Gli sherpa di Casellati più “creativi” hanno ipotizzato un escamotage: il voto anziché “scendere” dal candidato premier ai candidati nei due rami del Parlamento, “salirebbe” da questi a quello; in più la scheda sarebbe nulla se c’è difformità tra la scelta della coalizione della Camera e quella del Senato. Anche in questo caso più che a dubbi di incostituzionalità saremmo di fronte a una certezza, anche alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale: si comprimerebbe il diritto dei cittadini di scelta dei propri rappresentanti in Parlamento. Ma alla luce dei testi delle tre successive versioni del premierato (dal primo ddl sino agli emendamenti del 5 febbraio) non ci si dovrà meravigliare di nulla.

Ignorando la possibilità di due risultati diversi per le due Camere, un altro scenario complicato sarebbe quello che il voto di argentini, australiani o canadesi il cui nonno era immigrato dall’Italia, ribalti le urne degli italiani che vivono in Italia. Qualcosa di simile è già avvenuto nel passato (nel 2006 per il Senato), ma non era in ballo l’elezione diretta del candidato premier che prende più voti, bensì l’assegnazione di seggi. In questo scenario le difficoltà non sarebbero di natura giuridica o tecnica, bensì politica, ma non di meno gli sherpa del ministero si stanno interrogando. Il candidato con meno voti in Italia governerebbe, mentre quello con più consenso starebbe all’opposizione.

Se si aggiunge che nel centrodestra si ragiona sull’introduzione di una soglia del 40% per ottenere il premio di maggioranza, il rischio di avere un premier di minoranza nel Paese è più che una probabilità. Di qui la reticenza di alcuni giuristi che vengono sentiti dal ministero a dare l’assenso ad una soglia inferiore al 50%, come avviene in tutti i Paesi a democrazia avanzata dove si vota per cariche monocratiche di governo.
Il premierato elettivo si sta dimostrando sempre più come il Pozzo di San Patrizio di Orvieto: più si scende verso il fondo e più si vedono nuove monetine che sbrilluccicano nell’acqua e che prima non si vedevano.