L’evento organizzato da quattro associazioni per sollecitare una riforma del premierato condivisa e approvata con un quorum dei due terzi, ha certificato l’opposto delle intenzioni dei promotori: la maggioranza ritiene «irrinunciabile» l’elezione diretta del premier, subordinando ad essa l’efficacia di una riforma della forma di governo. Sul palco della Sala Umberto, ieri a Roma, la ministra Casellati non ha usato il fioretto per rigettare le argomentazioni di costituzionalisti e di esponenti delle opposizioni, che hanno sottolineato le contraddizioni del ddl che porta il suo nome, e soprattutto la sua inefficacia nel dare stabilità al governo, che anzi, con il sistema pensato dal centrodestra, sarebbe sottoposto a maggiori fibrillazioni.

La «maratona oratoria» voluta da Magna Carta di Gaetano Quagliariello, Libertà Eguale, dei liberal del Pd, da Io Cambio nonché dall’Istituto Bruno Leoni, ha visto sfilare una quarantina di personalità sul palco dello Teatro romano. Costituzionalisti come Francesco Clementi, Giuseppe De Vergottini, Alessandro Sterpa, Salvatore Curreri, Carlo Fusaro, Serena Sileoni o Stefano Ceccanti (che alla fine ha tirato le conclusioni), politologi come Gaetano Quagliariello o Angelo Panebianco, ex parlamentari come Mario Segni, Natale D’Amico o Fabrizio Cicchitto, e alcuni esponenti delle opposizioni, come Ivan Scalfarotto, Maria Stella Gelmini o Dario Parrini. Le associazioni chiedono al centrodestra di rinunciare all’elezione diretta e puntare semmai al rafforzamento dei poteri del premier, sul modello tedesco, dove il cancelliere può chiedere lo scioglimento del Parlamento. Ma la ministra ha chiuso a chiave le porte: «L’unico punto irrinunciabile è l’elezione diretta del premier. Il coinvolgimento dei cittadini nella scelta della persona che dà l’indirizzo politico al governo è necessaria, dopo dieci anni di disallineamento tra la voce dei cittadini e il governo, un fenomeno che ha condotto all’attuale astensionismo». In questo racconto il centrodestra ha «già ceduto» alle opposizioni su altri punti, come l’introduzione del limite dei due mandati, o l’eliminazione dell’indicazione nel testo del premio di maggioranza del 55%. «Rispetto alle opposizioni abbiamo ceduto su tutto, se cediamo su questo significherebbe che non andiamo avanti a colpi di maggioranza ma di minoranza».

C’è poi stato un siparietto con il dem Dario Parrini, che ha sollevato un brusio nella sala anche tra chi costituzionalista non è, ma che ha visto tanti dibattiti sulle riforme costituzionali: «Parrini mi spieghi – ha detto la ministra – la differenza tra elezione diretta e indicazione sulla scheda. Non c’è differenza. Cedano almeno su un punto, questo». Da parte sua l’esponente del Pd ha ribadito che sull’elezione diretta c’è una «pregiudiziale» del suo partito. Ha tentato di cogliere tutti di sorpresa Peppino Calderisi che, a nome delle associazione promotrici, ha lanciato una mediazione, il «lodo Barbera», vale a dire una soluzione alla quadratura del cerchio proposta il 16 aprile 1997 dall’attuale presidente della Consulta in una seduta della bicamerale: indicazione sulla scheda al primo turno ed elezione diretta nel ballottaggio tra i due candidati più votati. Una polpetta avvelenata per il centrodestra, perché questo significherebbe una soglia del 50% per l’elezione diretta, mentre la maggioranza punta a una soglia del 40%. Questa le darebbe più chance di vincere le elezioni senza ricorrere al ballottaggio, e pazienza se poi si elegge un premier di minoranza, in contraddizione quindi con l’idea che il mandato diretto darebbe più autorevolezza al Presidente del Consiglio e più stabilità al suo governo.

Nelle conclusioni Ceccanti si è detto convinto che dopo le Europee «si aprirà una fase di possibile decantazione e di potenziale confronto effettivo sul merito» perché Meloni – e Schlein – non sanno come potrebbe finire il referendum. Di qui alle Europee la parola passa a Meloni.