Per spiegare l’evoluzione del dibattito sul premierato vale la pena raccontare quanto avvenuto ieri in Senato e soprattutto quanto non è accaduto. Cominciamo con quanto avvenuto a Palazzo Madama. Due associazioni più vicine al centrodestra (Fondazione Magna Carta e istituto Bruno Leoni), una vicina al centrosinistra (LibertàEguale) e una espressione della società civile (Io Cambio), hanno presentato un appello: affrontare la riforma con un approccio condiviso, così da approvarla in Parlamento con il quorum dei due terzi, che eviterebbe il referendum. A sostegno di questo appello i promotori hanno organizzato per martedì prossimo, 27 febbraio, una maratona oratoria a Roma, dalle 10 alle 13.

Il ragionamento di Gaetano Quagliariello (Magna Carta), Nicola Drago (Io Cambio), Enrico Morando e Stefano Ceccanti (LibertàEguale), Serena Sileoni (Istituto Bruno Leoni) e Peppino Calderisi, esperto di questioni istituzionali, è che una riforma che dia stabilità al governo rimane «una priorità». In questa fase di campagna elettorale i partiti accentuano la polarizzazione, ma dopo le europee «si aprirà una fase politica nuova», in cui sarà possibile arrivare a «un momento riformistico» condiviso. Il «velo di ignoranza» che avvolgerà l’esito del referendum – in caso di approvazione a stretta maggioranza – indurrà tutti, destra e sinistra, a riconsiderare la strategia.

Il sacrificio maggiore viene chiesto al centrodestra: rinunciare all’elezione diretta formale, per ripiegare sull’indicazione sulla scheda del candidato premier. Alle opposizioni si chiede di accettare il rafforzamento dei poteri del premier. «Abbiamo voluto mettere un piede in mezzo alla porta prima che sia chiusa definitivamente» ha spiegato Quagliariello. Tuttavia Drago e Sileoni hanno convenuto che «è difficile pensare che la maggioranza rinunci all’elezione diretta». In effetti il patto di governo tra Lega e Fdi si basa proprio sullo scambio tra autonomia differenziata ed elezione diretta del premier. Difficile pensare che dopo le europee Meloni sceglierà di abbandonare il ruolo di leader della coalizione in favore di quello di “madre costituente”.

Altrettanto significativo è quanto non è accaduto in Senato: una riunione del centrodestra per chiarire le divisioni in particolare sul potere del premier eletto di chiedere lo scioglimento delle Camere. Come è noto la Lega è riuscita a non far inserire nell’ultima versione della riforma (contenuta negli emendamenti del governo del 5 febbraio) il potere del premier di chiedere il voto anticipato in caso di mancata fiducia posta dal governo su un proprio atto, potere che ha solo in caso di «dimissioni volontarie».

Ora gli sherpa di Fdi hanno scoperto che contro la «norma Ghino di Tacco» è possibile attivare la «norma Scilipoti» a vantaggio del partito più forte, logorato dal più piccolo. Infatti gli emendamenti del governo prevedono che in caso di «dimissioni volontarie» del presidente del Consiglio, egli possa ottenere un nuovo incarico dal Capo dello Stato, senza che vi sia per lui alcun vincolo di mantenere la stessa maggioranza elettorale, potendo ricorrere a nuovi «Responsabili». Basta dimettersi volontariamente prima dell’incidente parlamentare.

In Senato è sulla bocca di tutti i parlamentari la «contromossa» di Fdi, che peraltro smentirebbe clamorosamente l’obiettivo stesso della riforma. L’aspetto distopico della situazione è che non è all’orizzonte alcun incontro chiarificatore, non solo sul merito dei testi, ma soprattutto sul clima di reciproca sfiducia e inganno.