C’è un luogo nella Bassa padana che lo scorso fine settimana ha catalizzato l’attenzione della comunità teatrale più curiosa, quel triangolo tra Gualtieri, Guastalla e Reggio Emilia, trasformato in palcoscenico espanso da Mario Perrotta, a conclusione del suo triennale «Progetto Ligabue». Autore-attore-regista apprezzato per le sue tirate monologanti sulle emigrazioni in Belgio degli anni 50 – memorabile il suo Italiani cìngali!, sui minatori lacerati dalla tragedia di Marcinelle – Perrotta ha questa volta lavorato su una dimensione corale, riservandosi per sé la scena finale e andando a coinvolgere 180 artisti di diverse discipline, per tre spettacoli che sono stati il cuore di «Bassa continua – Toni sul Po».

Avviata nel 2011, la ricerca Antonio Ligabue, si è sviluppata attraverso esiti spettacolari (Un bès – 2013 e Pitùr – 2014), i cui frammenti sono riconoscibili nella drammaturgia dei tre percorsi montati per questo gran finale, programmato proprio nei giorni del cinquantesimo della morte (27 maggio 1965) del visionario artista svizzero-italiano. Un’esistenza travagliata quella di Ligabue, segnata da povertà, abbandoni e malattia. Dopo l’infanzia, arriva ventenne a Gualtieri, paese di origine del padre adottivo, dove trascorrerà il resto della sua vita alla ricerca disperata d’amore, tra solitudine nei boschi e tentativi di approdo nell’area urbana, tra libertà totale e reclusioni manicomiali. Da questi conflitti scaturisce la sua potente opera pittorica (di quella scultorea restano poche tracce, a causa della deperibilità dei materiali), pure esplosioni di colore e di figure, compresi gli innumerevoli autoritratti, che attenuano il dolore di una vita da «scemo del villaggio».

Nei tre spettacoli itineranti, del Toni se ne ricostruiscono i paesaggi interiori, portando gli spettatori a immergersi in quelli architettonici e naturali. Le brume delle pioppete nella golena del Po, nel percorso «Fiume», sono forse quelli che infondono un’emozione assoluta, quando nel buio emergono i quadri danzati, recitati o solo musicali, agiti sull’acqua o su pedane da balera, dove corpi voluttuosi solleticano i bisogni repressi del Toni. Mentre nel percorso «Città» il peregrinare degli spettatori attraversa anche il teatro «senza palcoscenico», recuperato a colpi di pala dai giovani dell’associazione Teatro di Gualtieri. E poi il «Manicomio», dove l’azione, nel Padiglione San Lazzaro dell’ex Ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, si fa più violenta, estrema, come l’inquietante struttura impone.

Tra i 180 protagonisti, nominiamo almeno Micaela Casalboni, Marco Cavalcoli e Paola Roscioli, bravissima anche nel canto, prima di arrivare all’accorato finale. Qui Ligabue, artista consapevole e ormai affermato, siede sulla sua bara trasportata in spalla, elemosinando ancora e per l’eternità un bès – il bacio del primo movimento. Epilogo straziante e riuscitissimo nella grande piazza Bentivoglio di Gualtieri, in cui confluiscono i tre gruppi di spettatori (oltre 600 persone), riattualizzandosi cittadini partecipanti al funerale di quel maggio ’65. Peccato aver fatto slittare a oggi l’inaugurazione della mostra allestita a Palazzo Bentivoglio e dedicata dal Comune al suo geniale, disprezzato e amato, cittadino «scemo».