Ville, auto di lusso, jacuzzi, sigari cubani, cocaina, champagne. Non fu niente di tutto questo Bernardo Provenzano, il «padrino» morto ieri nell’ospedale San Paolo di Milano, dove era ricoverato da quattro anni per gravi patologie celebrali, ma al regime del 41 bis per una sfilza di ergastoli. I poliziotti della mobile che dieci anni fa fecero irruzione nella masseria di Corleone, a Montagna dei Cavalli, non si trovarono di fronte «Scarface» né a uno stuolo di gorilla armati fino ai denti: da quel casolare uscì un signore di 73 anni, minuto, dimesso, sguardo allucinato dietro agli occhiali.

Dentro a quel misero covo, con un televisore rotto e pochi mobili, Provenzano, che con Totò Riina scatenò la guerra di mafia negli anni Ottanta con i clan perdenti di Stefano Bontade, andava avanti a pane e cicoria. Quel giorno, era l’11 aprile del 2006, il reparto speciale che gli dava la caccia pose fine ai 43 anni di latitanza del boss e alle tante leggende che aleggiavano sul suo conto. Colpì il contrasto tra il mito di un boss astuto e sanguinario, «spara come un Dio» pur avendo un «cervello di gallina» disse di lui il capomafia Luciano Liggio e per questo veniva chiamato ‘u tratturi, e la vita spartana di una persona all’antica.

Sospettava di tutto e di tutti. Raccomandava agli amici di parlare a bassa voce e di controllare la presenza di «cimici» e telecamere nascoste. Mandava i suoi ordini con i celebri «pizzini», codificati e scritti in un italiano sgrammaticato ma molto espressivo, con l’inseparabile macchina per scrivere. In quei foglietti era rappresentato tutto il mondo di Provenzano, quello che il pentito Angelo Siino ha descritto come un «sistema» di imprese, appalti, affari, soldi riciclati nei canali dell’economia legale. E sullo sfondo una rete di relazioni e mediazioni con la politica, oltre ai contatti con Matteo Messina Denaro.

Era arrivato ai vertici della holding mafiosa imponendosi nelle fila della cosca di Corleone e crescendo con l’amico d’infanzia Totò Riina. Per l’abilità con cui usava le armi veniva utilizzato per le operazioni più sanguinose. Al fianco di Riina, da tutti consacrato come «capo dei capi», gli era toccata la parte del secondo.

E nella stagione delle stragi quella di comprimario. All’esterno la sua lealtà cementava l’immagine di compattezza di Cosa nostra. «Riina e Provenzano sono la stessa cosa» si diceva. In realtà esprimevano due diverse visioni del governo mafioso: irruento e sbrigativo Riina, accorto e riflessivo Provenzano. Quest’anima «moderata» poté emergere solo dopo l’arresto di Riina, il 15 gennaio 1993. Era il colpo più duro per la mafia giunto al culmine di una controffensiva dello Stato innescata dalle inchieste di Falcone e Borsellino e consolidata dalle condanne del maxiprocesso. La mafia aveva reagito scatenando l’offensiva stragista del ’92 e ’93. Ma, come diceva Riina, «faceva la guerra per poter fare la pace». Toccò a Provenzano gestire questa fase dello scontro. E fu lui a correggere l’originaria strategia del terrore. Indossò i panni del «traghettatore», fermò gli attacchi, fece tacere le armi. La tecnica della «sommersione» serviva a cogliere due obiettivi: consentire alla mafia di tornare ai suoi affari tradizionali e aprire una «trattativa» con lo Stato anche a costo di «consegnare» Riina, come lo stesso boss era propenso a sospettare nelle sue confidenze in carcere intercettate.

Nelle mani di Provenzano l’organizzazione cambiò pelle relegando in secondo piano la sua forza militare per dare spazio alla cooptazione di fiancheggiatori e professionisti insospettabili e ampi settori della politica. Tra i suoi «prestanome» c’era anche il «re» della sanità privata, Michele Aiello, arrestato per associazione mafiosa nell’indagine che coinvolse anche l’ex governatore Totò Cuffaro, condannato per favoreggiamento e che ha scontato la condanna definitiva. Il sistema di relazioni del boss è da tempo messo a fuoco in varie indagini ancora aperte. Un filone è quello che ipotizza «coperture» anche negli apparati investigativi. A lui faceva capo una rete di «talpe» alla Procura di Palermo.

E il generale del Ros Mario Mori è finito sotto processo, ma poi assolto con il suo braccio destro Giuseppe De Donno, con l’accusa di avere protetto la latitanza di Provenzano. Tra gli episodi più clamorosi della sua lunghissima latitanza c’è certamente la sua «trasferta» a Marsiglia dove venne operato per un tumore alla prostata. Era il 2003. A svelare i particolari del viaggio agli inquirenti sarà l’ex presidente del Consiglio comunale di Villabate Francesco Campanella, arrestato per mafia e poi passato tra i ranghi dei collaboratori di giustizia: arrivò in Francia sotto il nome di Gaspare Troia, padre di uno degli uomini d’onore che lo accompagnarono in clinica.

Provenzano si porta nella tomba tanti segreti. I magistrati hanno tentato di stimolare i suoi ricordi, ma lui si è presentato come un vecchio confuso e smemorato. E in effetti alla perdita di potere dopo l’arresto si è aggiunto il lento declino, cominciato il 12 maggio del 2012, quando le videocamere del supercarcere di Parma lo riprendono, nella sua cella, con un sacchetto in testa. Un tentativo di suicidio? Secondo i legali è uno dei primi segnali della malattia neurodegenerativa da cui Provenzano non si riprenderà mai.

Il secondo episodio è un audio dell’interrogatorio che gli ex pm Antonio Ingroia e Ignazio De Francisci gli fanno in carcere per «sondare» eventuali intenzioni di collaborazione: il boss risponde con parole sconnesse, farfuglia e confonde presente e passato. Per alcuni finge, per altri manifesta sintomi di una patologia che galoppa. Qualche mese dopo cade, riporta un ematoma al cervello, entra in coma e viene operato. I figli e la moglie lo incontrano. Le immagini girate nella sala colloqui lo riprendono con un berretto in testa. Fatica a tenere in mano la cornetta del citofono interno, stenta a riconoscere i familiari.

Da allora lo visitano decine di medici. Quando venerdì scorso i sanitari hanno capito che la broncopolmonite non gli avrebbe dato scampo hanno avvertito i parenti per l’ultimo incontro. Il corpo del vecchio padrino è ora all’istituto di medicina legale. I pm di Milano hanno disposto l’autopsia. Mentre il questore di Palermo ha già fatto sapere che i funerali si svolgeranno per motivi di ordine pubblico in forma privata. Solo i familiari potranno accompagnare il feretro al cimitero. Probabilmente quello di Corleone, paese in cui il boss è nato, dove venne catturato seguendo la biancheria sporca che era costretto a far lavare dalla moglie. «Per Corleone la morte di Provenzano è una liberazione da un cancro», taglia corto la sindaca Leoluchina Savona, che ha disposto il ritiro delle bandiere listate a lutto esposte per la tragedia ferroviaria in Puglia, chiudendo un eventuale equivoco.