Dopo Mohamed e Paola, martedì un tunisino ancora senza nome. Il bracciante di 52 anni e padre di quattro figli, è deceduto in un’azienda agricola di Polignano a Mare. Secondo le testimonianze di alcuni compagni di lavoro si sarebbe accasciato davanti alle macchinette automatiche mentre era intento a prendere il caffè, dopo aver raccolto l’uva per 8 ore. Sin da subito si è provato a rianimarlo, ma nonostante sul posto siano intervenuti il personale del 118, dello Spesal e i carabinieri, non c’è stato nulla da fare. L’uomo risiedeva a Fasano, in provincia di Brindisi.

L’autopsia che dovrà stabilire le cause del decesso e se siano la conseguenza di un infortunio sul lavoro, sarà eseguita questa mattina nell’Istituto di Medicina legale del Policlinico di Bari.

Nel pomeriggio di ieri invece, nella sede della Regione Puglia a Bari, l’assessore al Lavoro Leo e l’assessore all’Agricoltura Di Gioia hanno incontrato i sindacati confederali e di categoria per la questione del lavoro nero nelle campagne pugliesi. «Abbiamo voluto – ha spiegato l’assessore Leo – affrontare con i sindacati, lo faremo anche con le parti datoriali, la questione, ognuno per le proprie competenze. Abbiamo una convenzione del 2013 per la lotta al lavoro nero e occorre capire come e quanto sia stata applicata, visto pochissime aziende sembrano aver aderito alle liste di prenotazione, utilizzando pochissimo dei fondi a disposizione».

Ma la questione del caporalato in Italia, e nel Sud in particolare, è un’emergenza atavica. Che ogni anno d’estate ritorna sulle prime pagine dei giornali soltanto in presenza della morte dei braccianti. Poi, tutto torna nel dimenticatoio, come se nulla fosse successo. Perché al di là delle parole di circostanza della politica, siamo di fronte ad un’emergenza che in pochi sino ad oggi hanno avuto il coraggio di affrontare di petto.

Basta dare un’occhiata ai dati del secondo rapporto «Agromafie e Caporalato», redatto dall’Osservatorio Placido Rizzotto per conto della Flai Cgil. Sono circa 400.000 i lavoratori che trovano un impiego tramite i caporali, di cui 100.000 presentano forme di grave assoggettamento dovute a condizioni abitative e ambientali considerate paraschiavistiche.

Dall’introduzione nel codice penale del reato di caporalato (art. 603 bis del codice penale dell’agosto del 2011) sono circa 355 i caporali arrestati o denunciati, di cui 281 nel 2013.

Ottanta gli epicentri dello sfruttamento: in 55 di questi sono state riscontrate condizioni di lavoro indecente o gravemente sfruttato. Più del 60% dei lavoratori e delle lavoratrici sotto caporale non ha accesso ai servizi igienici e all’acqua corrente. Più del 70% presenta malattie non riscontrate prima dell’inserimento nel ciclo del lavoro agricolo stagionale. Per il mancato gettito contributivo il caporalato ci costa più di 600 milioni di euro l’anno.

I lavoratori impiegati dai caporali percepiscono un salario giornaliero inferiore del 50% rispetto a quello previsto dai contratti nazionali e provinciali di lavoro, cioè circa 25/30 euro per una giornata di lavoro che dura fino a 12-14 ore continuative. A questo, poi, bisogna aggiungere le “tasse” da corrispondere ai caporali dovute al trasporto (5-10 euro), all’acquisto di acqua (1,5 euro a bottiglia) di cibo (3,5 euro per un panino) e commissioni varie dovute all’impossibilità di accedere a beni di prima necessità come i medicinali o come la ricarica elettrica del telefono cellulare (circa 3 euro a ricarica).

In molti casi, i lavoratori sono costretti anche a pagare l’affitto (circa 200 euro mese a testa) degli alloggi fatiscenti nei tantissimi ghetti lontani dai centri urbani e da occhi indiscreti. Tristemente famosi in Puglia quelli in provincia di Foggia: il cosiddetto «Gran Ghetto di Rignano», il «Ghetto Ghana House» a dieci chilometri da Cerignola; il «Ghetto dei bulgari», nei pressi di Borgo Mezzanone, l’insediamento presso la pista dell’ex aeroporto militare attiguo al Cara (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) di Borgo Mezzanone.

La quantità di denaro che gira intorno al caporalato nel solo periodo della raccolta del pomodoro (giugno-luglio) in Puglia va dai 21 ai 30 milioni di euro.
A fronte di questa cifra i braccianti in 2 mesi di lavoro forse arrivano a guadagnare circa 400-500 euro: tutto il resto va nelle tasche del sistema del caporalato.

Che istituzioni e cittadini conoscono fin troppo bene.