È di 23 vittime, 97 feriti e oltre 500 arresti, secondo le autorità egiziane, il bilancio esplosivo dei tre giorni di scontri che hanno segnato in tutto l’Egitto il quarto anniversario delle rivolte del 25 gennaio 2011. Piazza Tahrir, chiusa da filo spinato e blindati, ieri è stata riaperta al traffico. Ma Fratelli musulmani, partiti liberali e di sinistra avevano chiesto ai loro sostenitori di non arrivare alla piazza simbolo delle rivolte ma di protestare solo nei quartieri circostanti. In una delle manifestazioni dello scorso sabato in piazza Talaat Harb ha perso la vita Shaimaa El-Sabbagh, poetessa e rivoluzionaria operaia, uccisa da un proiettile della polizia, secondo la versione fornita da compagni di partito e testimoni oculari.

La vicenda ha segnato la sinistra egiziana che, priva di una leadership politica credibile ha dimostrato la centralità delle richieste dei lavoratori nella lotta per la democratizzazione del paese. «Le contestazioni dei giovani egiziani a favore dei lavoratori sono state rivolte contro sindacati ufficiali e indipendenti», ci spiega Joel Beinin, professore di Storia all’Università di Stanford ed esperto di movimenti operai egiziani. «Questi attivisti hanno continuato a fare politica seguendo network informali e legami familiari. Ma anche decine di migliaia di lavoratori non possono formare un movimento senza alcun legame con l’intelligentia urbana», ha aggiunto.

«Per questo il movimento operaio fatica a diventare un movimento nazionale. Con il tempo ha tentato di formare un’organizzazione centrale quando in Tunisia esisteva già prima delle rivolte», ha concluso il docente. In altre parole, il distacco dei movimenti operai, che attiviste come Shaimaa tentavano di colmare, è il vero segreto per trasformare le rivolte di piazza Tahrir in una «rivoluzione».

Fin qui il movimento egiziano si è dimostrato capace solo di unirsi per chiedere le dimissioni di Mubarak e ha manifestato una parziale e frammentaria conoscenza delle istituzioni statali e dell’élite militare, lasciandosi manipolare da tutte le forze in campo, a partire dalla giunta militare, ma anche dalla Fratellanza a cui è da imputare il grave errore di aver lasciato i movimenti di sinistra e liberali a se stessi, non includendoli nella formazione del governo, nel breve periodo in cui l’ex presidente Mohammed Morsi era al potere (2012-2013).

Anche il noto rapper Ahmed Mohsen che suonava con Amr Haha e Alaa Fifty nel quartiere periferico di Matariya, ora il cuore delle contestazioni dei Fratelli musulmani, è rimasto ucciso negli scontri del 25 gennaio. La sua famiglia, come nel caso di Shaimaa, ha ammesso di aver subito pressioni prima che venisse autorizzata la sepoltura del giovane a dichiarare che si fosse suicidato per non allungare la lista dei contestatori, uccisi dalla polizia, nelle proteste.

Secondo il ministro dell’Interno, Mohamed Ibrahim, uno degli artefici del massacro di Rabaa al-Adaweya del 14 agosto 2013, con le contestazioni di domenica scorsa, i Fratelli musulmani avrebbero voluto «un’altra rivoluzione». In realtà, da fonti del movimento, apprendiamo che il principale partito di opposizione, ora in clandestinità, ha chiesto ai suoi sostenitori di scendere in strada solo in piccoli gruppi senza arrivare a uno scontro diretto con polizia e militari per evitare una carneficina e mantenere un profilo basso, come di consueto dopo il massacro di Rabaa.

Di Shaimaa, Ibrahim ha detto che se l’inchiesta dovesse rilevare responsabilità di un ufficiale di polizia, sarà lui stesso «a portarlo al processo». Parole ipocrite poiché la polizia in Egitto continua ad agire con metodi arbitrari. Secondo Ibrahim, i poliziotti avrebbe anche sventato vari tentativi di assalti a stazioni di polizia.