Quattro mesi di prigione e 300 frustate: è la pena comminata a 49 lavoratori stranieri dalla corte della Mecca, in Arabia Saudita. La loro colpa è stata protestare alcuni mesi fa per il mancato versamento degli stipendi da parte del Bin Laden Group.

La compagnia di costruzioni, colosso fondato 80 anni fa dal padre del leader di al Qaeda, aveva licenziato un anno fa 70mila dipendenti, dopo che il crollo del prezzo del greggio e le folli spese militari investite in Siria e Yemen hanno costretto il governo a sospendere i pagamenti dei servizi alle società private.

A maggio i lavoratori sono scesi in piazza e alcuni di loro hanno dato fuoco a sette autobus del gruppo. Due giorni fa la sentenza: i crimini imputati ai 49 operai sono danneggiamento di proprietà privata e incitamento alla protesta.

Il caso non è certo unico nel paese che più di altri incarna l’incontro distruttivo tra modernismo e conservatorismo, consumismo all’occidentale e soffocamento dei diritti fondamentali. Decine di migliaia di dipendenti della Saudi Oger, compagnia di costruzioni guidata dal premier libanese Hariri, sono in attesa degli stipendi da mesi.

A settembre erano stati i lavoratori della United Seemac a compiere un atto rivoluzionario per gli standard sauditi: uno sciopero – reato a Riyadh come la più generale attività sindacale – perché senza stipendio per quasi due anni. Per fermare il sit-in , la società aveva offerto ai 215 lavoratori in mobilitazione 266 dollari. Poco più di un dollaro a testa quando il dovuto toccava quasi il milione di dollari. Dietro la protesta sta la disperazione dei lavoratori immigrati, che costituiscono buona parte della forza lavoro in Arabia Saudita, ripagata con stipendi miseri e semi-schiavitù.

Milioni di immigrati (oltre 8 su una popolazione di 26, il 56% della forza lavoro e l’89% di quella impiegata nel settore privato) da India, Pakistan, Egitto, Yemen e Bangladesh, sono schiavi dell’arcaico sistema della kafala: è un saudita a “garantire” per l’immigrato, uno sponsor che si fa padrone, ne detiene il passaporto costringendo il lavoratore ad accettare ignobili condizioni di vita e lavoro, senza possibilità reali di cercare un altro impiego o lasciare il paese. Condizioni che vanno dalle violenze fisiche contro operai e collaboratrici domestiche a stipendi da fame saccheggiati dalle spese per l’alloggio, in stanze affollatissime e quasi prive di servizi igienici.

E l’ultimo anno (con il crollo del prezzo del greggio solo ora in risalita dopo l’intesa all’Opec) ha visto un ulteriore peggioramento. Molte compagnie per quasi un anno non hanno pagato gli stipendi, impedendo ad almeno 150mila lavoratori di mandare denaro alle famiglie nei paesi di origine e in molti casi obbligandoli a mendicare cibo nelle rispettive ambasciate.

Le grandi società di costruzioni sono arrivate sull’orlo del fallimento, con Riyadh incapace di pagare i debiti accumulati. Una crisi che i Saud tentano di mascherare ma che svela le contraddizioni intrinseche al paese terzo al mondo per spese militari con 87,2 miliardi di dollari l’anno. Un flusso ininterrotto che ha infiammato la guerra in Siria e intensificato l’operazione contro lo Yemen, due conflitti persi che hanno lasciato dietro di sé non solo l’isolamento politico dell’Arabia Saudita ma anche un deficit di quasi 100 miliardi di dollari, il 15% del Pil.

Per frenare il dissanguamento delle casse statali, Riyadh ha ufficializzato a fine dicembre le riforme economi annunciate. L’obiettivo è limitare la dipendenza dal petrolio, diversificare l’economia e ridurre le spese. Non quelle militari, ma quelle civili attraverso introduzione dell’Iva, riduzione dei salari pubblici, taglio ai sussidi per elettricità e acqua, aumento del prezzo del carburante, non più calmierato ma legato alle fluttuazioni del mercato.