Il romanzo comincia con un narratore onnisciente, poi – a partire dal terzo capitolo – si insinua tra i personaggi un’altra voce in terza persona, introdotta dalla effigie di un uomo con due bilance sulle spalle: quell’uomo è Mevlut, il protagonista, un piccolo venditore ambulante di Istanbul. Come mai, proprio lui parla di sé in terza persona, mentre tutti gli altri avanzano sulla scena dicendo «io»?

Per scrivere questo romanzo ho deciso di uccidere il giovane scrittore postmoderno che è il me, e tornare a uno stile classico: mi fa piacere che questa conversazione parta da un problema di natura letteraria, perché mi dà l’occasione per raccontare come mi servo di quel dispositivo, messo a punto da Flaubert, che è lo stile indiretto libero. Lei notava che me ne servo per differenziare quella che è una voce narrante più vicina alla mentalità del protagonista da un’altra voce che racconta la vicenda in modo oggettivo, attenendosi ai dati di fatto. Anche Tolstoj a volte usa un registro di tipo storico-giornalistico – per esempio quando dice, in Guerra e pace, che le armate napoleoniche si stavano avvicinando a Mosca – e altre volte si immedesima nel punto di vista di Pierre Bezuchov, usando il suo lessico. Va e viene tra queste due strategie narrative senza cambiare marcia, e con la massima libertà. Ma a me pare che a influenzarmi sia stato, soprattutto, il Flaubert di Un cuore semplice. Detto questo, per raccogliere il materiale che mi sarebbe servito per il romanzo, mi sono basato su una miriade di interviste alle persone più diverse, venditori ambulanti come Mevlut, ma anche camerieri, e altri piccoli professionisti, persino certi alti ufficiali di polizia ormai in pensione sotto la cui giurisdizione cadevano i diversi quartieri di Istanbul che mi sono serviti per l’ambientazione. Nei sei anni impiegati per la stesura del libro, mi sono reso conto di avere raccolto così tante voci che i dispositivi classici del romanzo non bastavano più a rappresentarle: quindi sono tornato a una soluzione che avevo già sperimentato in Il mio nome è rosso, un romanzo costruito dall’intreccio di molte voci diverse, che si smentiscono anche reciprocamente e parlano in modo più o meno affidabile, o inaffidabilmente affidabile, dando luogo a uno spazio narrativo molto libero ma anche assai ambiguo.

Secondo Bachtin, il romanzo polifonico è popolato da «uomini-idea», portatori di un punto di vista sul mondo, di una loro valutazione della realtà, che scontrandosi con altri punti di vista innescano un principio dialogico. Funzionano così anche le voci di questo suo romanzo, è d’accordo?

Sì, anche questo mio ultimo romanzo, come già uno precedente titolato Il mio nome è rosso, cade sicuramente sotto la prospettiva bachtiniana che lei ricorda; ma in questo caso non spetta al lettore risolvere il conflitto creato dalle diverse voci dei personaggi, che si alternano, si sovrappongono, e in molti casi si scontrano. Piuttosto che deflagrare in qualcosa di drammatico come un conflitto, tutte queste voci si ritrovano e si riconciliano un po’ in quella di Mevlut, il protagonista al quale riservo – del resto – il maggior numero di pagine.

Lei è un appassionato conoscitore della tradizione modernista occidentale, quella da cui trae, per esempio, l’idea di fare avanzare sulla scena i personaggi facendoli parlare ognuno in prima persona. Al tempo in cui scrisse «La casa del silenzio», disse che non aveva osato dotare di una voce propria Nilgün, la nipote della vecchia protagonista, perché non se la sentiva ancora di adottare un punto di vista femminile. Qui, invece, mette in scena tre sorelle, due delle quali sposeranno il protagonista, e le impegna in monologhi molto credibile. Quali difficoltà ha trovato calandosi nel loro punto di vista?

Nessuna difficoltà, questo è il mio primo romanzo femminista, e non resterà l’unico. Detto da un maschio turco, le suonerà come un ossimoro, e infatti lo dico in modo ironico; tuttavia, mi ritengo molto contento dei risultati. Mi sembra di essere riuscito, infatti, a rappresentare bene la condizione in cui vivono le donne in Turchia, la repressione a cui sono soggette, gli abusi che subiscono, la loro umanità fatta di rabbia espressa in un linguaggio spesso molto affilato, la loro immaginazione, il loro senso dell’umorismo, e in definitiva il loro essere tramiti di un vero pensiero alternativo. In quanto figlio di una madre che aveva una sorella maggiore e una minore, ricordo benissimo le sedute tra queste tre donne, che si raccontavano a vicenda la relazione con i loro mariti, confrontavano le reciproche situazioni familiari, producevano una battuta dopo l’altra, e ridevano davvero molto. Certo, io provengo da un ceto sociale diverso da quello dei personaggi di cui parlo nel mio romanzo, tuttavia ritrovo in loro un senso dell’umorismo capace di schierarsi e di contrapporsi efficacemente alla consuetudine repressiva che le donne, spesso le trattate come delle serve, subivano da parte dei loro mariti. Al tempo del romanzo e oltre. Per parlare di questi aspetti non ho dovuto né documentarmi, né fare chissà quali ricerche, potevo disporre di molto materiale in presa diretta.

C’è, a questo proposito, un capitolo in cui il personaggio di Vediha, la sorella maggiore, infila cinquanta domande per chiedersi se sia giusta la sorte che le spetta, evocando le colpe che immeritatamente le addossano, i rimproveri che le muovono, il disprezzo che le riservano, e così via per tre pagine, tanto che, alla fin fine, il tutto suona piuttosto comico…

Ecco, appunto, per scrivere queste pagine non ho certo avuto bisogno di andare a cercare chissà dove. Il monologo di Vediha, questa donna che manda avanti da sola tutta la baracca e dispensa consigli, mi viene da osservazioni accumulate nella mia infanzia, quando andavo a trovare i miei compagni di scuola e già sulla soglia delle loro case capivo con chi avevo a che fare. C’erano famiglie in cui ci facevano togliere le scarpe prima di entrare, le donne erano velate, non facevano che andare e venire per servirci il te, insomma era chiaro che ci trovavamo tra conservatori musulmani, e tuttavia anche tra loro avevo dei carissimi amici. Ma alle donne non si permetteva, in quelle famiglie, nemmeno di toccare il telecomando della televisione.

I suoi sono personaggi al tempo stesso felici e malinconici, non si abbandonano a congetture ma si dilungano nella stesura di una sorta di diario interiore in cui riportano capillarmente, come già nel «Museo dell’Innocenza», ogni loro minimo gesto. Alla fin fine, questa mancanza di economia nel riportare ciò che pensano, dicono e fanno i suoi personaggi, «fra intenzioni del cuore e intenzioni delle labbra», è diventata una cifra del suo stile, non crede?

Questo mi sembra un modo molto gentile di dirmi che il mio romanzo si addentra troppo nei dettagli: posso anche accettarlo. Ma se è così, non dipende dalle voci narranti, e non è un dispositivo stilistico. Ha molto più a che vedere con il mio desiderio di accogliere e restituire tante voci e tanti particolari che diano conto dei cambiamenti di Istanbul durante l’arco dei quasi cinquant’anni in cui si svolge il romanzo. In questo senso, direi che mi comporto come il curatore di un museo che non riesce a buttar via nemmeno un cucchiaino: così come quello non si può disfare di un oggetto, per quanto banale, io non riesco a tralasciare nemmeno un gesto o una parola dei miei personaggi. D’altronde ho deciso che questo sarebbe stato un romanzo epico.

Tuttavia, si direbbe che lei si trovi soprattutto a suo agio quando affonda la penna nel miele, e riconducendo i sentimenti amorosi alla loro elementarità, li esponene senza il filtro del pudore…

Per la verità mi irrito molto quando qualcuno, magari non avendo letto bene il romanzo, mi dice: ecco qui un libro alla Zola. Non è così. Il mio romanzo vuole essere una invenziona giocosa e al tempo stesso molto introspettiva, e la cura che metto nel restituire l’eleganza di certi gesti, di determinati oggetti, così come l’importanza di certe relazioni, o delle piccole cose nella vita di ogni giorno rimanda, a mio parere, piuttosto a un atteggiamenrto proustiano, o tolstojano. Certo, il mio Mevlut non è un Pierre Bezuchov, uno che esercita chissà quale impatto, o che lascia chissà quale segno sulla Storia. È un uomo qualunque, preso dalla vita ordinaria. Ma proprio questa sua piccolezza, combinata con ciò che lei chiama «miele» porta a una attenzione minuziosa nei confronti dei dettagli più diversi della vita.

Quando scopre di essere stato ingannato, Mevlut non reagisce: crede di avere organizzato il rapimento della donna di cui si era innamorato, ma dopo avere scoperto che si è presentata al suo posto la sorella, non dice niente e la sposa senza protestare. Come dobbiamo interpretare questa sua passività?

Beh, è probabile che, quando scopre la trappola, Mevlut si dica tante cose, ma Orhan Pamuk non permette al lettore di leggere nella sua testa: che ognuno arrivi alla fine del libro e tragga le proprie conclusioni. Il romanziere plasma i personaggi a volte anche occultando i loro pensieri, per lasciare al lettore un po’ di lavoro e perché prenda lui la decisione definitiva su cosa pensarne. Non è detto che se avessi squadernato i ragionamenti di Mevlut e i suoi sentimenti questo lo avrebbe reso più interessante. E c’è una cosa, soprattutto, da non dimenticare: Mevlut accetta con affetto e sposa con dedizione la donna che gli si è presentata, nonostante l’inganno, perché con lei scoprirà le gioie del sesso. Una volta che le ha scoperte e le ha frequentate, in fondo che gliene importa se era lei la donna giusta o quella sbagliata?

In una delle sue Norton Lectures lei afferma che noi andiamo sempre «scrupolosamente alla ricerca del centro segreto del romanzo». Qui il centro qual è?

Dipende dalle interpretazioni. La sfida che ho lanciato a me stesso era vedere la vita di Istanbul, nella sua dimensione epica, attraverso gli occhi di un protagonista appartenente a una classe povera, quindi molto distante dal mio ceto di provenienza. Ho fatto del mio meglio per non cadere nei soliti tranelli, per non scivolare nel melodramma e provocare compassione. Perciò, era necessario che mi sforzassi di ritrarre Mevlut nella contraddittorietà della sua dimensione umana, con tutti i suoi errori, senza appiattirlo su un ritratto di ambientazione pauperistica. Ecco, magari da un punto di vista teorico non sarà questo il centro del romanzo, ma era il cuore delle mie ambizioni.

Per i suoi personaggi il pensiero è azione, e l’azione si svolge perlopiù nei dialoghi: le torna?

Non ci avevo pensato, però è vero che trovo un po’ rozzo concentrarsi solo sulla azione tout cort, e certamente desidero che questa si distribuisca nei dialoghi tra le parti. Inoltre, trovo che la gravitas di certe azioni o situazioni debba essere bilanciata dalla ironia: in questo romanzo, la pesantezza è data dalla condizione sociale molto umile alla quale appartiene Mevlut, dal lavoro al quale è sottoposto, con le umiliazioni che questo implica; tutto ciò cerco di controbilanciarlo offrendo del personaggio una vita intima che è, in realtà, piena di gioia. Avevo il problema di fare in modo che il lettore fosse disposto a seguire il mio personaggio per cinquecento e rotte pagine, e questo mi ha obbligato a dotarlo di fantasia, di stranezza, appunto, di una sua speciale visione delle cose. In parte Mevlut somiglia a me: fin da quando ero ragazzo gli amici mi dicevano: «Orhan, hai una strana testa». Poi un giorno ho letto Il preludio di William Wordsworth e ci ho trovato questa frase: «Avevo pensieri malinconici… Una stranezza nella mia testa», e mi sono detto che prima o poi avrei dovuto scrivere un romanzo il cui titolo contenesse queste parole.