«Ora che la bandiera degli Stati uniti sventola sul malecón, il presidente Raúl è disposto a continuare la sua politica di apertura e ad avvicinarsi ad un altro “nemico storico”, il Fondo monetario internazionale, per rompere l’isolamento economico dell’isola?». La domanda che si pone l’economista Douglas Tamayo circola da tempo negli ambienti economici della capitale.

Chi sembra puntare sul proseguimento delle riforme economico-sociali iniziate cinque anni fa dal più giovane dei Castro è il vertice della Chiesa cattolica cubana. «Quando il papa verrà in visita troverà una Cuba in progressiva trasformazione» assicura il cardinale Jaime Ortega, arcivescovo dell’Avana. Del resto, non passa settimana senza che nell’isola giunga una delegazione di politici e imprenditori di paesi interessati a rafforzare o annodare rapporti economici-commerciali con l’Avana. Di fronte all’acutizzarsi della crisi del Venezuela – principale fornitore di finanziamenti – Cuba cerca nuove fonti di investimenti esteri: Spagna, Cina, Francia e Italia, ma anche le grandi istituzioni finanziarie internazionali come Fmi o Banca mondiale.

Il governo di Raúl Castro incoraggia lo sviluppo di questi rapporti bilaterali, specie con l’Europa. Per dar impulso alle riforme decise cinque anni fa nei Lineamenti socio-economici, sono necessari – queste le stime del ministro dell’economia e supervisore delle riforme, Marino Murillo – almeno 2,5 miliardi di dollari di investimenti esteri all’anno. Le fonti di finanziamento dell’isola sono essenzialmente tre, turismo, rimesse estere e vendita di servizi medici–soprattutto al Venezuela. In totale producono più del 70% per cento delle entrate in valuta, circa 10 miliardi di dollari (8,8 miliardi di euro) all’anno.

Una cifra tutt’altro che modesta. Ma non sufficiente per rilanciare lo sviluppo del paese. Innanzi tutto perché, se si esaminano le tre voci, si vede che in realtà gli introiti reali sono minori. Il turismo, per esempio, genera ingressi per circa 2,5 miliardi di dollari (in crescita, dato che a luglio si è registrato un aumento del 26% rispetto allo stesso periodo del 2014 e che si attende un forte incremento del turismo nordamerican) ma quasi la metà degli introiti se ne vanno in spese, perché Cuba produce ben poco di quello che serve al settore del turismo e dunque deve comprarlo all’estero ( a caro prezzo a cusa dell’embargo americano). La esportazione di personale medico, poi, deprime la sanità locale. Infine, le riforme economiche hanno una pesantissima palla al piede: la doppia moneta circolante, ovvero il peso cubano (Cup) col quale si pagano i salari e il peso convertibile (Cuc), agganciato al dollaro e necessario al cittadino per acquistare praticamente tutto quello che serve per vivere.

Ma l’eliminazione del Cuc, già decisa nell’ambito delle riforme, si dimostra impresa di grande difficoltà tecnica e pratica. Passare al Cup come unica moneta circolante comporta almeno due pesantissime conseguenze, provocare una forte inflazione e deprimere il potere di acquisto dei cittadini, già scarso dato che il salario medio è di circa 550 Cup, poco più di 20 euro al mese.

Senza poter contare su un significativo risparmio interno, per finanziare la decentralizzazione dell’economia (oggi sotto il controllo quasi totale dello Stato), modernizzare le infrastrutture e continuare a fornire prestazioni sociali assai costose il governo si vede costretto a cercare di ampliare la possibilità di accesso al mercato internazionale del credito. «L’Fmi è un’opzione» può aiutare sia ad ottenere crediti meno costosi, sia a procedere all’eliminazione della doppia moneta» afferma la ricercatrice spagnola Anna Ayso. «Però è un’opzione che comporta costi associati (politici) che i Castro hanno sempre criticato.

Dunque implicherebbe cambiamenti radicali» in termini di politica fiscale e di trasparenza dei conti. Secondo la ricercatrice vi sarebbero altre opzioni, come l’adesione alla Banca Interamericana di Sviluppo. Ma il governo cubano è restio a rientrare nell’Organizzazione degli Stati americani (Osa) dal quale era stato espulso nel 1962 per volontà di Washington. «Il “nuovo corso” iniziato nel dicembre del 2014 con gli Stati uniti non comporta un cambio della valutazione politica sul ruolo imperiale che giocano gli Usa, specialmente in America latina, dove l’Osa resta uno degli strumenti di Washington» afferma il politologo Fernando Martinez Heredia.

Pur sotto tutela degli Usa, il Fondo monetario internazionale è considerata un’istituzione «più multilaterale», sostiene Tamayo. Per l’economista «Il governo si muove ormai da tempo in direzione dell’appoggio di tali organismi internazionali. Da mesi sta ristrutturando il proprio debito estero (secondo calcoli ufficiosi circa 15 miliardi di dollari) con i principali Paesi del Club di Parigi. Anche a costo di deprimere, come avviene, i consumi interni: nei supermercati si trovano meno prodotti, alimentari e di casalinghi, proprio perché parte del denaro necessario per acquistarli (si ricordi che a causa dell’embargo Cuba deve pagare cash) è stato dirottato per far fronte al debito estero».
«Cuba ha i requisiti per sollecitare la sua adesione al Fmi», ha scritto Héctor Torres, ex direttore esecutivo del Fondo citato da El País. Secondo fonti internazionali, alcuni esperti occidentali, tra i quali Dominique Strauss-Khan ex direttore del Fmi, starebbero fungendo da consiglieri del presidente Raúl in questa marcia di avvicinamento.

L’importante è che gli Usa, come sembra, non si oppongano. Entrando nel Fmi, infatti, Cuba sarà costretta a rispettarne le regole, a rendere trasparenti i propri conti, a omologare i metodi per misurare la crescita economica, a specificare le proprie riserve valutarie. Così una crescita economica, a quel punto meno controllata dallo stato, dovrebbe facilitare gli obiettivi politici che Obama dichiara di voler perseguire: favorire lo sviluppo a Cuba di una società civile, aprendo la strada a un futuro pluralismo politico.