Un anno di tennis da vivere come una lunga partita a poker. Pesando le carte, le fiches e la forza degli avversari seduti al tavolo. Roger Federer sulla carriera meticolosa del dettaglio e su un talento mai visto prima ha costruito una carriera da 18 tornei del Grand Slam. Era assente da sei mesi dal circuito agonistico, non gli era mai successo. Fuori per mettere a posto un ginocchio malconcio. Qualche settimana dopo imitato da Rafa Nadal, il suo avversario di sempre, anche lui ritornato in questi giorni. Intervento chirurgico, riabilitazione, primi allenamenti, tutto in fila ma il timore su Federer c’era e resta, sulla strada dei 36 anni. I più grandi a quest’età, da Borg, Edberg, Becker, Sampras, si erano dedicati ad altro da tempo. Re Roger invece si è mostrato di nuovo ai suoi sudditi della pallina, ottomila australiani sono corsi a Perth per vederlo sciogliersi in allenamento, più della media spettatori di qualche club di Serie A.

Ad attenderlo al varco sono praticamente da tutti. Tifosi, avversari, media. Per un’attenzione mediatica quasi eccessiva, superiore a quella che l’ha accompagnata in oltre 15 anni di tennis. C’è il rischio che ogni incontro giocato dall’elvetico nel 2017 possa essere vissuto come l’ultimo della sua straordinaria carriera dal pubblico. E che possano venir giù dalle tribune cascate di applausi e incoraggiamento anche per sconfitte inattese, prestazioni incolori contro atleti che avrebbe battuto su una gamba e con un set di svantaggio. Insomma, sarebbe un peccato mortale se il tennista più forte di sempre alimentasse involontariamente un carrozzone mediatico trasformando le varie tappe della sua stagione del rilancio in un lungo addio a puntate. È stata la formula scelta da un altro divino dello sport, Kobe Bryant, che ha utilizzato la regular season Nba 2015/2016 per salutare in maglia Los Angeles Lakers i 28 palazzetti dello sport avversari nella Lega che l’hanno applaudito, insultato, temuto in quasi 20 anni.

Ma è la Nba, sport che fa rima con business, sentimenti e dollari assieme a canestro. Federer non ha mai vissuto la sua vita dentro e fuori dal campo come uno show a puntate. Quindi – ed è l’augurio degli innamorati dello sport – Re Roger dopo un buon collaudo all’Open d’Australia che parte tra una decina di giorni pesi, assapori la sua condizione fisica, mentale, la voglia di giocare sul dolore per essere ancora competitivo. Magari sfidando Rafa Nadal al Roland Garros, alimentando l’atto finale della diarchia più lunga nella storia dello sport (nel 2016 si sono contemporaneamente trovati fuori dalla classifica dei primi dieci del mondo, non accadeva dal 2001). Oppure riuscendo a piazzarsi tra Murray e Djokovic, giocandoci alla pari, poca importanza che vinca o perda. Ha detto alla stampa di voler giocare altri due anni e vincere un altro torneo del Grand Slam, ovvero sette partite da tre set su cinque, in due settimane, con avversari robot con sette-otto anni in più e migliaia di chilometri in meno nel contachilometri di un tennista, che accumula balzi, frenate, torsioni, micromovimenti che incidono sulle articolazioni e che spesso fanno perdere sonno e pezzi di vita familiare, come raccontava Andrè Agassi nella sua autobiografia bestseller, Open.

È quasi un’impresa, anche se ex tecnici, giocatori, esperti lo ritengono ancora con qualche carta da giocare ad alti livelli. Se così non fosse, Re Roger si alzi dal tavolo dei giocatori, senza annebbiare la memoria storica di milioni di amanti del tennis divenuti tali grazie al suo talento.