Protagonista per il Romaeuropa Festival di uno spettacolo che ha abitato le sale storiche di Palazzo Corsini alla Lungara, Sabina Meyer, interprete vocale poliedrica capace di spaziare dall’improvvisazione al contemporaneo, torna al teatro barocco. Ninfa in lamento traccia un’architettura sonora rigorosa ma flessibile su cui si costruisce, con suoni e immagini, uno spettacolo «totale», denso di implicazioni e rimandi diversissimi.

«Mi è piaciuto tessere varie elementi, non soltanto vocali, ma anche drammaturgici e visivi – spiega l’artista svizzera, cercando sempre di mettere in valore il testo, un grande traguardo della musica del primo Seicento rispetto alla bellezza sovrabbondante della polifonia vocale. Ci sono testi poetici di grandissima qualità, che prendono vita incastonati in una partitura visiva che spazia da Piero di Cosimo fino a Man Ray. Un viaggio nel tempo, sulle tracce della «ninfa moderna», come l’ha raccontata George Didi-Huberman».
Un percorso che ha necessitato delle scelte musicali: «Mi sono concentrata sul primo Seicento, Monteverdi maturo e Barbara Strozzi, quindi un linguaggio barocco più diretto, meno elaborato rispetto agli sviluppi successivi. Il lamento è un topos fondamentale dell’epoca barocca, ma ho voluto recuperarne anche la forza vitale, quasi fosse un percorso di morte e rinascita, perché lo strazio del lamento fosse abitato anche da un’energia di creazione».

Una partitura complessa, sviluppata su più piani, un montaggio di materiali antichi, tipica di certe esperienze del XX secolo, di cui Sabina Meyer è stata spesso interprete. Esperienze lontane fra loro?: «Solo in apparenza. Certo, una parte del linguaggio contemporaneo ha abolito la parola, nelle musiche di Scelsi che canto tutto si convoglia in un suono. Sono stati preziosi, come anche per la musica di Cage, gli insegnamenti di Michiko Hirayama, che con Scelsi ha condiviso il percorso artistico. La tecnica e lo stile vocale sono diversi, però il profilo armonico, l’uso degli intervalli, la ricerca di purezza e astrazione configurano punti di contatto con la musica barocca davvero illuminanti». Oggi tante artiste ci propongono i lamenti barocchi alla ricerca di una verità musicale «storicamente informata». Una ricerca che sembra scorrere parallela a decenni di ricerca filologica: «Pur cercando di aderire il più possibile allo spirito del barocco ho sempre cercato un linguaggio personale, non da specialista. Ho studiato a fondo, ho seguito delle masterclass con Alessandrini, ma continuo a ricercare una mia soluzione interpretativa. Questo non vuol dire che il mio lavoro non corrisponda a necessità tecniche e stilistiche precise, per essere naturali serve la costrizione, un grande lavoro di selezione e limatura.

Sabina Meyer vive questa musica come una vera ricreazione contemporanea: «Non posso prescindere dalla rivisitazione, per me ogni linguaggio contiene in sé il suo rovesciamento, era capitato già con Hans Eisler e gli innesti di musica elettroacustica. Piuttosto che congelare la musica nelle sue origini, amo far emergere una coscienza di ciò che è venuto dopo, da Jimi Hendrix a Xenakis. Quello che però nessuno di noi tre ricerca è la pura contaminazione, nelle interpretazioni barocche impiego un rigore che esclude, ad esempio, inflessioni swing o jazz. I pezzi contemporanei, gli interventi di musica elettronica e le arie barocche sono stratificati, affiancati in una sorta di strana emulsione, il dato interessante è il loro corto circuito, lo spaesamento che si crea all’interno dello spettacolo.