«Avrebbe potuto succedere alla mia famiglia», racconta Gevorg Ghazaryan, uno degli oltre dieci giornalisti pestati dalla polizia venerdì sera. A Yerevan, nel bel mezzo degli scontri fra manifestanti e polizia, fra lanci di pietre e fumogeni, la facciata di una casa prende fuoco, forse a causa del calore emesso da una granata stordente. Ci abita una famiglia, una coppia con un figlio e la nonna.

Il bambino, disperato, inizia a gridare contro la polizia: «Non ce la faccio più, prendo un fucile e vi sparo!». La madre urla insulti verso le forze dell’ordine. A quel punto un gruppo di agenti in borghese si scaglia contro la famiglia, inizia a pestare l’uomo e un’altra donna, forse la sorella o una vicina. Ghazaryan inizia a filmare e a scattare foto, inorridito dalla scena.

Questo fino a che il giornalista – corrispondente del portale news georgiano jam-news.net – non viene visto da un agente in borghese, che si lancia contro di lui. «Ti spacco la faccia», gli grida e poi lo colpisce alla schiena. Ma non sono solo le botte a far male. Come spiega ancora il giornalista al manifesto, a fargli ancor più rabbia sono la macchina fotografica sequestrata – che non ha più avuto indietro – e la telecamera spaccata. Tutto il lavoro di quelle ore, la testimonianza delle violenze, andato in fumo.

Non è la prima volta che Ghazaryan viene preso di mira e colpito. L’estate scorsa era stato uno dei giornalisti aggrediti dagli agenti durante la protesta di Electric Yerevan. Un colpo di manganello il faccia gli aveva spaccato gli occhiali, e si era preso un pugno allo stomaco, con tanto di fermo di polizia e macchina fotografica sequestrata per ore. Ad altri suoi colleghi – nel raid di venerdì – è andata ancora peggio, e sono finiti in ospedale. Altri ancora sono stati minacciati di morte nelle ore seguite alle violenze, mentre colleghe sono state bersaglio di insulti sessisti. Aggressioni, intimidazioni, pestaggi e danni alle attrezzature da parte della polizia in quella che ha tutta l’aria di essere una operazione per mettere a tacere i media indipendenti, mentre la TV di stato continua a trascurare la crisi che ha investito l’Armenia nelle ultime due settimane.

Ancora un’estate calda, a Yerevan, la quarta di fila investita da proteste di massa contro un governo, quello del partito repubblicano, che appare sempre più delegittimato agli occhi della popolazione. Ma questa volta c’è di più: la scintilla di un’insurrezione armata, portata avanti da un gruppo ultra-nazionalista che chiede le dimissione del presidente armeno Sargsyan.

Gli insorti, che hanno preso d’assalto una stazione di polizia uccidendo un agente e trattenuto degli ostaggi per giorni, chiedono la liberazione di alcuni prigionieri, fra cui il loro leader: l’armeno-libanese Jirair Sefilian, reduce della guerra civile libanese e eroe della guerra vinta dall’Armenia contro l’Azerbaigian negli anni novanta, incarcerato a giugno per traffico d’armi. Un’accusa respinta dai ribelli, che ha fatto appello alla popolazione di insorgere. Dopo il silenzio del primo giorno, hanno iniziato a emergere manifestazioni sempre più grosse a favore degli insorti e contro il governo, ritenuto responsabile di una crisi economica e sociale che attanaglia il Paese da anni. Ne sono seguiti centinaia di fermi di polizia, arresti e scontri con la polizia, in un crescendo che è arrivato allo scoppio di violenza di venerdì sera, quando ci sono stati oltre settanta feriti, fra cui donne, anziani e bambini. Il tutto mentre la stazione di polizia, uno dei maggiori depositi di armi della capitale, rimane da ormai due settimane in mano agli insorti. Le autorità esitano a tentare il blitz, sperando di evitare un bagno di sangue che rischierebbe di portare il Paese sull’orlo dell’abisso.

Gli uomini sono tanti – una ventina – ben armati e dalle ottime capacità operative – e nella serata avrebbero ucciso un altro poliziotto. Ma forse spaventa ancora di più il lato simbolico della questione. L’eventualità di uccidere degli eroi di una guerra, quella del Nagorno-Karabakh, che rappresenta un punto fondamentale dell’identità armena post-sovietica. Un prezzo troppo alto da pagare, per un governo ormai in piena crisi.