La seduta della Commissione Affari costituzionali del Senato in cui si sarebbe dovuto cominciare a discutere degli emendamenti al ddl Casellati sul premierato assomiglia al Gran Consiglio del 25 luglio 1943: in entrambi si è svolto uno scontro tra i protagonisti, in Commissione si è addirittura sfiorata la rissa; ma di entrambe non c’è il verbale. Per gli eventi del Gran Consiglio gli storici si sono dovuti accontentare delle memorie dei protagonisti, scritte mesi o anni dopo; per gli eventi della Commissioni i poveri cronisti si sono dovuti accontentare di quanto i protagonisti hanno raccontato in Aula successivamente. Ma l’assenza di un resoconto della seduta della Commissione, prevista dai Regolamenti parlamentari, è già una anomalia che denota una pericolosa pressione della maggioranza sui funzionari e i dipendenti del Senato, che sono a servizio dell’istituzione e dei cittadini, e non della maggioranza pro-tempore di turno.

Avvolgiamo il nastro. Mercoledì sera alle 20 la Commissione Affari costituzionali si riunisce per la prima seduta dopo il deposito degli emendamenti. Il presidente Alberto Balboni (Fdi) fornisce le prime cifre: le proposte di modifica delle opposizioni sono 1.862, quelle del governo sono quattro; a queste ultime le opposizioni hanno presentato ulteriori 800 emendamenti. Certo molti dei 1.862 emendamenti decadranno, perché i quattro testi del governo riscrivono profondamente il ddl Casellati, ma ne rimarranno comunque in campo molti, e la maratona durerà giorni.

Per questo Balboni chiede di iniziare a illustrare subito gli emendamenti al primo articolo (il più semplice): e qui comincia l’ostruzionismo del Pd e di Avs, che chiedono prima di stabilire un calendario delle sedute da dedicare all’illustrazione degli emendamenti: loro, infatti, intendono spiegarli uno per uno. Balboni insiste e cominciano allora ad alzarsi i toni e le voci, che si odono fuori dalla Commissione. Balboni fa una osservazione sugli emendamenti ostruzionistici di Tino Magni (Avs) – di quelli seriali, in cui per esempio si afferma che il Presidente eletto resta in carica 1 giorno, 2 giorni, 3 giorni, ecc – parole che vengono prese come “irrisione” degli stessi emendamenti, che sarebbe un atteggiamento improprio per un presidente. Tra le urla di Magni, quelle di Balboni: allorquando il dem Parrini si alza per avvicinarsi al banco della presidenza per chiedere una cosa al funzionario della Commissione Balboni minaccia di chiamare i commessi, che svolgono, tra gli altri compiti, quelli di polizia interna. La seduta si conclude con l’illustrazione degli emendamenti al primo articolo, ma prosegue in Aula la mattina dopo.

Ieri mattina i cronisti hanno cercato i resoconti della seduta, ma non erano stati pubblicati. Questo sino alla sera di ieri. Alle 9,30 in Aula all’inizio della seduta, trasmessa in diretta web, ognuno ha raccontato la propria versione dei fatti, a partire dal presidente dei senatori del Pd Francesco Boccia, passando per Balboni, i dem Andrea Giorgis e Dario Parrini, Tino Magni (Avs), Dafne Musolino (Iv). Pd e Avs hanno accusato Balboni di aver travalicato i propri poteri, Balboni ha addirittura chiesto al presidente La Russa un Giurì d’onore che ristabilisca la verità dei fatti. Il punto però è che fino a sera mancava il resoconto, che i bravissimi funzionari del Senato solitamente redigono in un paio d’ore. Resoconto che renderebbe superfluo il Giurì d’onore: uno strumento parlamentare – si è visto alla Camera per la vicenda Meloni-Conte – che la maggioranza usa, anzi piega, a proprio uso e consumo. La vicenda del resoconto rimane inquietante perché evoca possibili indebite pressioni sui funzionari. Ma il Giurì d’onore non farà a sua volte piacere a chi, in Fdi, come la premier Meloni e il presidente La Russa, chiede un cammino spedito del premierato, di certo non agevolato da diatribe “machiste”. Molti hanno quindi letto il rinvio dell’incardinamento dell’Autonomia differenziata in Commissione alla Camera, come segnale di tensioni o dispetti nel centrodestra.