L’Università italiana discute e gli studenti giustamente protestano a proposito dei rapporti di ricerca con Israele. Le collaborazioni in campo scientifico spesso trovano sbocco in pratiche militari, ma anche gli studi umanistici più astratti sono inseriti nel tessuto di una società che opera come potenza coloniale in Medio Oriente.

Questo intreccio è ben delineato nel volume recente della studiosa israeliana Maya Wind, Towers of Ivory and Steel. How Israeli Universities Deny Palestinia Freedom (Torri d’avorio e d’acciaio. Come le università israeliane negano la libertà alla Palestina).

ISRAELE continua a sentirsi minacciato nonostante sia una delle principali potenze militari del mondo e continua anche a dichiararsi e vittima della situazione. Tutto questo ha a che fare con una realtà coloniale in cui sia il colonizzato che il colonizzatore vivono relazioni sostenute dalla violenza. Sostenere la parte dominante che continua il suo percorso coloniale non offre, ovviamente, alcuna soluzione al colonizzato, ma nemmeno al colonizzatore che è destinato a vivere in uno stato di eccezione di guerra, con una vita sociale completamente militarizzata. In entrambi i casi ci si trova, come aveva già previsto Hannah Arendt più di 75 anni fa, ben al di là dei parametri di una democrazia che promuove diritti per tutti quelli sotto la sua tutela.

La prospettiva critica consiste proprio nell’insistere su un ragionamento politico democratico e non su una logica geopolitica che cerca di preservare lo status quo. Ciò significa che l’Europa dovrebbe assumersi la responsabilità della tragedia che ha provocato in Medio Oriente nel corso del XX secolo, mentre Israele dovrebbe riconfigurarsi per rispondere a tutti i popoli sotto il suo dominio.

In altre parole, i presupposti per uno Stato democratico in quella striscia di terra sono già nelle mani di Tel Aviv. La popolazione palestinese araba, musulmana e cristiana è già inserita negli apparati statali del suo controllo diretto e indiretto, dal fiume al mare. La questione politica è come trasformare i fatti sul terreno dall’attuale violenza coloniale in un’elaborazione post-coloniale, articolata attraverso prospettive di giustizia.

Mi sembra che l’Europa, che continua in tutti gli ambiti economici e culturali a sostenere lo Stato di Israele così com’è, stia sostenendo un fallimento storico che va contro le sue stesse pretese di democrazia. Sta svelando, ancora una volta, lo stesso dispositivo razziale che aveva giustificato il suo colonialismo planetario: la conservazione della democrazia limitata a un’appartenenza etno-nazionale di una società di ex europei che, a quanto pare, vale più delle richieste di libertà degli arabi autoctoni.

FORSE le istituzioni nazionali ed europee chiamate a deliberare sui rapporti con lo Stato di Israele dovrebbero riflettere più profondamente dal punto di vista storico ed etico in questo momento. Per costruire un percorso capace di mediare tra l’atroce passato dell’Europa scaricato in Medio Oriente e la responsabilità di sostenere futuri orizzonti democratici per tutti e non solo per alcuni, le università e gli istituti di ricerca hanno, come minimo, il compito critico di sostenere un percorso capace di distaccarsi dall’attuale configurazione del potere/sapere.

Se l’università moderna è il luogo del confronto analitico e della ricerca innovativa, non può proporre la mera riproduzione dello status quo politico esistente e il suo senso comune senza perdere la sua stessa finalità critica e la sua missione storica.