Esistono due tipi di lettori. Quelli che leggendo riescono a figurarsi i volti dei personaggi e quelli che neppure ci pensano a compiere questa magia. La difficoltà di portare oltre la soglia della consapevolezza una visione non va associata a un disturbo della percezione. Infatti, un volto cui non si è fatta attenzione può essere rievocato, come se avesse lasciato in noi una traccia inconscia. Nella lettura, questa specie di distrazione è frequente. E non perché l’impressione visiva sia debole, essendo mediata dal linguaggio, ma perché non è mai evidente se ci sia un motivo per ricordare il volto di un personaggio. Per esempio, se Rosso Malpelo abbia «occhiacci di gatto» o la «bocca schiumosa» sono particolari poco rilevanti. È normale concentrarsi sul carattere preminente, anche se gli altri contribuiscono a stimolare impressioni e pregiudizi.

Nella vita reale accade ugualmente di non dare rilevanza a questo o a quel tratto: il colore degli occhi può non essere un dato evidente ed esserlo invece un certo modo di atteggiare lo sguardo. La nostra attenzione e la nostra memoria delle cose percepite sono molto influenzate dalla funzione che assegniamo al dato sensibile. Così accade nei libri: un’accurata descrizione di una faccia che non leghi il carattere alla storia verrà percepita come inutile, uno spreco di memoria, un racconto irrilevante.

Dopo aver letto il libro di Patrizia Magli, Il volto raccontato. Ritratto e autoritratto in letteratura (Raffaello Cortina, pp.270, euro 16), che è uno studio molto approfondito su un tema decisamente inusuale, ci si può divertire a eseguire un piccolo esperimento. Chiedere ad amici, meglio se forti lettori, di rievocare il volto di personaggi letterari, magari celebri. Probabilmente si dovrà registrare un’incertezza o un numero limitato di facce o una scarsità di dettagli. Robinson Crusoe ha la barba: e che forma ha il suo naso? Non si sa, ma per fortuna Laurence Sterne ha mostrato l’irrilevanza di un simile dettaglio: Tristram Shandy, infatti, vorrebbe iniziare il racconto autobiografico spiegando perché sia nato senza naso, ma gli riuscirà di farlo solo alla fine.

C’è un agire sotterraneo e a volte subdolo della memoria dei volti, che rende bene l’idea di quanto sia importante cercare di capire i modi in cui siano utilizzati negli spazi della comunicazione e della cultura. Patrizia Magli, con gli strumenti della semiotica, ha già dedicato molti anni di studi a questo tema nella storia della cultura visuale e nell’ultimo saggio volge l’attenzione al campo letterario.
Un terreno difficile e arduo, che proprio per questo è di estremo fascino: chi davvero sa cosa siano l’immagine e la figura nel linguaggio verbale? La sua indagine parte da una domanda diretta: il linguaggio riesce e può far vedere? Ovviamente la risposta non potrebbe essere univoca, e la narrazione di Magli si sposta agilmente tra i vari piani in cui diventa pertinente. A essere sintetici, la possibilità di produrre un’immagine nel linguaggio segue due vie. Una è la descrizione, cioè la costruzione di un ambiente visuale attraverso la conta degli elementi che lo compongono e lo caratterizzano. L’altra via è la mimesi dei gesti, sia di quelli che sono la manifestazione visiva di cause astratte (come strapparsi i capelli per la rabbia) sia di quelli che sollecitano il lettore a replicare l’immagine interiore delle azioni compiute dai personaggi: in questo caso si sollecita una risposta emotiva all’immagine. In entrambi i casi, però, ciò che conta nel racconto è il rapporto tra l’evidenza cognitiva e la rilevanza narrativa.

Un capitolo del libro, l’ultimo, è dedicato all’autoritratto letterario: un caso speciale ma anche essenziale per capire tutta la logica del ritratto. Così come esiste la narrazione biografica, cioè la vita degli altri, esiste la narrazione autobiografica. Il capitolo è particolarmente interessante perché si intreccia con un insieme di pratiche che fuori dall’ambito letterario hanno acquisito un significativa visibilità, come il famigerato selfie, o altre che nella storia della cultura hanno invece una ben più solida tradizione, come l’autoritratto pittorico.

Ma nel gioco infinito delle repliche visuali di immagini e di ricordi, il ritratto del proprio volto rende molto evidente un fatto: che il lettore tende ad attribuire ai personaggi le facce che sono state importanti per lui. L’autore potrà dare la fattezza che desidera a un personaggio ma il lettore lo ricorderà soprattutto se avrà sovrapposto a quell’immagine un’immagine propria. Così come il vero volto degli eroi con i quali partecipiamo alle azioni è solo il nostro ritratto interiore, il più segreto, il più irreale.