Il difetto sta nel manico. Il conflitto di interessi non è la conseguenza di un comportamento scorretto dell’ex ministra Federica Guidi. È la premessa della scelta di un presidente del consiglio che, anche sotto questo particolare aspetto del rapporto tra affari e politica, si dimostra come un perfetto esemplare del berlusconismo di seconda generazione.

Quale governo affiderebbe il ministero della salute a un industriale farmaceutico? Il governo di Matteo Renzi ha consegnato il ministero dello Sviluppo economico alla rampolla della famiglia Guidi, industriale modenese legato alle commesse di numerose compagnie pubbliche (Enel, Poste, Ferrovie).

Certamente senza le intercettazioni, scattate per un’inchiesta sul malaffare del giacimento petrolifero in Basilicata, non avremmo avuto la prova di un ministro che usa a fini (lucrosi fini) privati un potere politico, ma l’incompatibilità, tutta politica, era sotto la luce del sole. Una ministra nata male e finita peggio.

La responsabilità di questo avvitamento del governo intorno alla questione morale è tutta intera del presidente del consiglio, impermeabile e sordo sui rischi del conflitto di interessi. Come dice anche l’altra clamorosa vicenda bancaria che ha coinvolto la ministra Boschi, il cui nome entra in queste intercettazioni sul caso Guidi. Sapeva, Boschi, che il compagno della collega Guidi era direttamente coinvolto in quell’emendamento che lei stessa ha timbrato nel passaggio della legge di stabilità? Se lo sapeva dovrebbe dimettersi anche lei, se ne era all’oscuro allora non è all’altezza del compito che le è stato assegnato.

Nelle dimissioni di Guidi si condensano inoltre una serie di effetti a valanga sul governo. Ne prendiamo in considerazione uno, il più vistoso.

Questo gravissimo scandalo ministeriale avviene mentre è in corso una campagna referendaria contro le trivellazioni petrolifere. Avviene proprio quando il presidente segretario schiera il suo apparato di potere, nel partito e nel governo, in favore dell’astensione per far fallire il referendum. E fa questo contro l’opinione di una larga parte del Pd, contro molte regioni promotrici della consultazione popolare, contro ogni dovere civico di partecipazione democratica.

Autorizzando così i peggiori sospetti sui rapporti tra lobby petrolifera e Palazzo Chigi.

Del resto proprio un autorevole esponente del Pd, Ermete Realacci, si è espresso con toni assai critici verso la linea astensionista del partito democratico. Senza farne una questione né ideologica, né pratica, ma simbolica, Realacci, dichiarando il suo «sì» per l’appuntamento del 17 di aprile, prende di petto la sostanza, che è il modello di sviluppo basato sull’energia fossile.

Facendo dimettere subito la ministra Guidi, Renzi stringe i bulloni del governo perché sa che non avrebbe potuto reggere un’ora di più un simile scandalo senza esserne travolto.

Pensare che con le dimissioni il caso sia risolto sarebbe un errore. Renzi ha solo tappato una falla.