«Non stiamo parlando di abbandonare il buon giornalismo per cominciare a scrivere con formule prefissate». Così, Martin Asser, già editor digitale per la BBC araba, spiegava – a giornalisti e pubblico – le basi della SEO.

Era il 2007 e nei giornali di lingua anglofona si parlava già, abbondantemente, di Search Engine Optimization, cioè di SEO, «ottimizzazione per i motori di ricerca».

In uno dei suoi corsi, Enrico Altavilla, probabilmente uno dei migliori SEO italiani, racconta che «al New York Times insegnano le tecniche SEO anche ai giornalisti che lavorano solo sul cartaceo». Già, perché l’ottimizzazione è una questione culturale che va ben oltre le tecniche per imparare a posizionarsi bene sui motori di ricerca e che riguarda il flusso di lavoro, l’idea che si ha del giornale, dell’informazione, di come farla fruire alle persone, di come organizzarla.

Altri mondi, altri modi di lavorare. E non è per fare gli esterofili: i problemi li hanno anche all’estero, lo sappiamo bene. Ma è indubbio che dalle nostre parti certe buone pratiche abbiano faticato (e stiano faticando ancora oggi) a diffondersi. Anche se i corsi SEO sono fra i più frequentati, nel novero dell’offerta formativa proposta ai giornalisti che devono, giustamente, sottoporsi alla formazione continua. Anche se in alcune realtà, anche importanti, la necessità di conoscere la SEO si sta lentamente affermando.

Il problema, se vogliamo, è che come tutti gli acronimi inglesi, la SEO viene troppo spesso raccontata come un’arte magica, un insieme di trucchi o, appunto, di formule precostituite. In realtà è una disciplina con le sue regole, che richiede studio, pratica e comprensione.

«Ottimizzare» vuol dire, in senso lato, organizzare il lavoro giornalistico partendo dal presupposto che non esistono – o almeno non dovrebbero esistere – barriere fra l’analogico e il digitale. Il giornalismo è un ecosistema che potrebbe approfittare nel migliore dei modi delle opportunità offerte dall’uno e dall’altro ambito. Il sito deve diventare il fulcro delle attività di un’impresa editoriale, integrato e coerente con tutte le sue declinazioni: un quotidiano deve essere identitario, riconoscibile, coerente che sia su un cartaceo, su Facebook – o su qualche piattaforma che non esiste ed esisterà – o che lo si trovi facendo ricerche su Google. E le buone pratiche che governano questa integrazione possono suggerire anche miglioramenti al flusso di lavoro e persino all’organizzazione dei contenuti.

Ottimizzare vuole anche dire capire cos’è e come funziona un motore di ricerca. E anche a cosa serve. In un contesto come quello in cui siamo immersi, caratterizzato da una produzione di contenuti senza soluzione di continuità (nascono 570 nuovi siti in un minuto e nello stesso, breve, lasso di tempo vengono condivisi 350 gigabyte di dati sul solo Facebook) farsi trovare facilmente dalle persone che fanno ricerche online è indispensabile per aggiungere un’importante leva alla sostenibilità del giornalismo. L’informazione mondiale aumenterà, i motori di ricerca resteranno indispensabili per recuperarla.

Parliamo di motori di ricerca ma, nella maggior parte dei casi, pensiamo al singolare: Google. E in effetti il colosso della Silicon Valley gestisce, da solo quasi il 90% delle ricerche di tutto il mondo (fonte: statista.com). Capire come funziona e quale sia la sua convenienza specifica è fondamentale, dunque. Non si tratta di essere tecnoentusiasti, ma di avere un approccio corretto alla tecnologia.

Il sogno di Google, la mission, direbbero gli amanti degli anglicismi, è quello di «organizzare l’informazione mondiale e renderla universalmente accessibile e utile», come scrive Francisco Mello nel suo The ultimate guide to OKRs. Prendere atto di questa dichiarazione di intenti da parte dell’azienda di Mountain View non significa essere fideisticamente convinti della bontà delle sue intenzioni ma sapere che se vogliamo fare SEO dobbiamo, per forza di cose, sapere cosa vuole Google dai contenuti che indicizza e posiziona. I contenuti giornalistici hanno bisogno di essere letti, per trovare un senso. E per essere letti bisogna anche essere rintracciabili su Google.

Questo significa capire come le persone ricercano le notizie che vogliono approfondire. Le famigerate keyword, cioè quelle parole chiave che vengono digitate dentro a Google quando si fa una ricerca non sono nient’altro che il modo in cui si parla normalmente di un determinato argomento. Prima che Renzi lo chiamasse «jobs act», con gli anglicismi che invadono anche la politica, nessuno avrebbe mai fatto quella ricerca in Italia. Dopo che Renzi lo ha chiamato così, «jobs act» è diventata una keyword.

E saper posizionare su Google un proprio articolo per quella keyword diventa allora anche un modo per contrapporre il giornalismo alla comunicazione. È ovvio che il governo abbia tutti gli interessi a comunicare la bontà del proprio intervento ed è altrettanto ovvio che Google tenderà a premiare nelle SERP (cioè le pagine risultato di una ricerca) il sito ufficiale dell’istituzione che ha introdotto il jobs act (esattamente come, se si cerca il manifesto su Google si trova, come primo risultato, il sito del manifesto). Se un giornalista digitale ha fatto bene il suo lavoro e ha pensato anche alla SEO, il suo articolo competerà nelle SERP con il sito di chi comunica. E il giornalista avrà dato maggior visibilità al suo lavoro, che è quello di informare, unire i puntini, approfondire, rilevare eventuali criticità, spiegare.

Fare bene SEO, insomma, vuole dire fare bene anche il lavoro giornalistico: non dovrebbe stupire nessuno, infatti, sapere che le persone, quando fanno una ricerca su Google, cercano le cinque W. In altre parole, cercano, quando vogliono approfondire un argomento, chi ha fatto che cosa, dove, quando e perché. Se un articolo risponde a queste domande in maniera semplice, corretta, funzionale e utile, è già sulla buona strada per essere ottimizzato per Google. E senz’altro ha le caratteristiche del buon giornalismo.

Fare SEO giornalistica vuol dire pensare al contenuto e a chi legge: due elementi senza i quali il lavoro del giornalista non avrebbe senso di esistere. Vuol dire titolare in maniera chiara, scrivere quanto serve realmente per la comprensione di un argomento e anche aumentare il traffico sul sito del proprio giornale. Cosa che può portare maggiori introiti (sia che il modello di business sia quello pubblicitario sia che si vogliano portare lettori a contenuti gratuiti per poi tentare di convincerli a sottoscrivere un abbonamento, per esempio).

Di tanto in tanto si assiste a qualche interpretazione curiosa dell’importanza di essere ai primi posti su Google. Per esempio, testate giornalistiche che comprano annunci pubblicitari per essere il primo risultato quando cerchi «notizie Italia». Non ha molto senso: il lavoro giornalistico si può «promuovere» da sé sui motori di ricerca, con una sapiente ottimizzazione, senza bisogno di quell’investimento aggiuntivo che non alimenta l’autorevolezza di un sito per Google e non attira certo più click di lettori (che sanno molto bene che quella sezione di Google con scritto «Ann.» è fatta di posizioni pubblicitarie, comprate).

Quel che ha senso, invece, è studiare e aggiornarsi. Google ha diffuso due guide importanti, nel tempo. Una è la Guida introtuttiva di Google all’ottimizzazione per motori di ricerca (SEO). Un pratico pdf di 32 pagine, tradotto anche in italiano, che sgombera il campo da tutta una serie di errori ed equivoci. L’altra è l’insieme delle linee-guida che vengono affidate ai quality rater, cioè alla parte umana dell’algoritmo, quelle persone che sono chiamate a valutare una SERP e i siti che la compongono, a partire da una query (ricerca). Si scoprirà un’altra cosa che non dovrebbe stupirci: Google privilegia i contenuti di qualità che servono al meglio l’intento della ricerca, cioè la persona che l’ha effettuata.

Contenuti e lettori al centro. Questa non è (solo) SEO. Questo è giornalismo.