Accompagnata da un coro pressoché unanime di lodi, oggetto di presentazioni televisive e letture radiofoniche, ha visto la luce lo scorso maggio, per i tipi di Rizzoli, una nuova versione italiana delle Metamorfosi, realizzata da Vittorio Sermonti (Le Metamorfosi di Ovidio, pp. 846, euro 21,00). Gli ampi consensi riscossi dal libro, di cui ho per le mani la seconda edizione, pubblicata a giugno, impongono una valutazione non superficiale dei risultati ottenuti dallo sforzo (senza dubbio ingente) che il traduttore ha profuso.

Il corposo volume si apre con una brevissima introduzione scritta in uno stile fortemente disomogeneo, che mescola triti cliché espressivi («Ovidio … è morto. W OVIDIO!»), sintagmi banali («folle immaginazione», «legittimo orgoglio», «cavillosità avvocatesca», ecc.), gergo saggistico («metafavola»), forme inconsuete nell’odierno italiano standard («mentisci»), involuzioni sintattiche (si pensi al segmento sui latinisti: terzo capoverso di pag. 11). Si cercheranno invano informazioni sulla vita e le opere di Ovidio, sui modelli letterari, sullo stile e la metrica. Altra è la finalità di Sermonti: egli ha concepito l’introduzione come un protrettico alla lettura delle Metamorfosi ovidiane, protrettico che ha per destinatari tanto i vecchi quanto i giovani («Coraggio, amico mio …, qualunque età ti succeda di avere! Prova!»), ma che è indirizzato soprattutto agli adolescenti, in primis quelli incolti, ossia i ragazzi che, secondo la «sociologia più brillante e sbrigativa», non leggono «nemmeno il più stupido pornogiallo da Autogrill». Sermonti sceglie costoro come interlocutori privilegiati perché crede che possano essere i più sensibili al fascino delle Metamorfosi, da lui bizzarramente definite, in un impeto semplificatorio, «un libro sull’adolescenza, un dizionario mitologico dell’adolescenza che canta il corpo dell’uomo in mutazione incarnandolo in figure letterarie».

Il principale eroe metamorfico per Sermonti è Narciso, evocato anche dall’elaborazione grafica in copertina (uno sdoppiamento della michelangiolesca Testa con orecchino, alterata al computer). Sermonti – si noti – legge l’episodio ovidiano di Narciso in chiave ‘narcisistica’ («un ragazzo bellissimo … diventa una sindrome che diventa un fiore…»): una lettura senza dubbio funzionale all’interpretazione delle Metamorfosi come «poema dell’adolescenza» (p. 16), ma in realtà distorta e deformante. Al centro della storia di Eco e Narciso, come Ovidio la racconta (3, 339 sgg.), non c’è tanto, infatti, il tema dell’amore (‘narcisistico’) di sé, quanto il motivo dell’apparenza ingannevole e dell’illusione. È questa una tra le non poche deformazioni d’Ovidio che caratterizzano il volume sermontiano.

Le pagine introduttive rivelano scarsa considerazione, direi anzi malcelato disprezzo per la filologia latina, per la quale Sermonti, con ironica condiscendenza, esorta il lettore a nutrire «tutto il rispetto e tutta la gratitudine che merita qualsiasi abnegazione». Nelle sue parole, l’attività dei latinisti, e in particolar modo degli specialisti di Ovidio, sembra ridursi a un’indagine, meticolosa ma di fatto sterile, sull’impianto compositivo delle Metamorfosi. Ora, i latinisti svolgono effettivamente – non v’è dubbio – analisi di questo tipo, ma fanno anche altro, molto altro, e prima di tutto cercano di interpretare rettamente il testo dell’opera oggetto delle loro cure. Dei risultati raggiunti dalla plurisecolare tradizione di studi critico-testuali ed esegetici sulle Metamorfosi Sermonti si sarebbe senz’altro potuto giovare, se li avesse valutati con maggior equilibrio, e ciò non avrebbe affatto peggiorato il suo libro. A causa dell’ostentato disinteresse per la filologia, invece, egli priva i lettori di nozioni essenziali, cosa tanto più grave in quanto si rivolge, come abbiamo osservato, soprattutto ai semicolti e agli incolti.

Sermonti non dice, ad esempio, che delle Metamorfosi (così come di ogni altra opera classica) non ci è pervenuto l’originale, e che ne conosciamo il testo solo grazie a una pluralità di manoscritti che sono copie di copie, manoscritti i quali spesso tramandano lezioni inaccettabili, che devono essere emendate dal filologo, o lezioni divergenti l’una dall’altra (tecnicamente ‘varianti’), tra le quali deve essere effettuata una scelta. Non solo, ma Sermonti non specifica neppure da quale edizione scientifica ha desunto il testo latino che la sua traduzione presuppone, testo che, per giunta, non sempre collima con il testo ovidiano stampato a fronte, privo di apparato critico così come la versione italiana è priva di note esplicative. Ecco, ad apertura di libro, alcune tra tali incongruenze: met. 1, 91-92: Sermonti scrive «leggevano», che presuppone legebantur, ma nel testo a fronte troviamo ligabantur; 1, 728: S. traduce «atterrita», che presuppone terruit, ma il testo a fronte reca exercuit; 2, 324: S. rende «che fuma» (fumantiaque), ma nel testo latino è stampato flagrantiaque; 7, 792: S. rende «latri» (latrare), ma il testo a fronte ha captare; 11, 523: S. traduce «(per quanto) le onde lampeggino», avendo quindi sotto gli occhi ardescunt … undae, ma nel testo a fronte è presente ardescunt … ignes. Ed ecco alcuni refusi, che rendono inintelligibile il latino ovidiano: conclamato per conclamat. (7, 844); imitat per inritat (8, 418); adisse per odisse (10, 314).

Veniamo ora alla traduzione, metricamente disomogenea, in quanto alterna ‘esametri neoclassici’ riusciti piuttosto bene, ossia versi quali 11, 516 («ecco le nubi squagliarsi in immani rovesci di pioggia»), assimilabili al pascoliano «tuffano il bronzo: rimbomba d’un suon d’ancudine l’Etna» (si ricordino le Regole di metrica neoclassica del Pascoli), a ‘esametri neoclassici’ imperfetti e segmenti di pura prosa, in cui l’‘a capo’ appare determinato solo dal desiderio di riprodurre il contenuto dei singoli esametri ovidiani. Prescindendo dalla metrica (il fatto che un’opera di poesia venga tradotta in versi disomogenei o anche in prosa non è, ovviamente, censurabile in sé), si deve purtroppo constatare che la qualità della versione sermontiana è davvero deludente: una conoscenza forse non adeguata della lingua latina e lo scarso interesse, già sottolineato, per l’acribia filologica, hanno causato, infatti, una lunga serie di imprecisioni, fraintendimenti, travisamenti. Così, ad esempio, uinctae cortice uirgae (1, 122), ossia «verghe legate da corteccia» (con riferimento alla costruzione di rudimentali capanne), diventa nella resa sermontiana «frasche ammucchiate l’una sull’altra» (giacigli?); index … lingua … refert audita susurra (7, 825-6), cioè «il delatore … riferisce le cose udite con lingua sussurrante», diviene «il delatore quanto ha ascoltato le risussurra» (perché «risussurra»? Da dove si desumerebbe che il delatore ha udito bisbigli?); poco dopo (7, 834), indicioque fidem negat («e nega fede alla delazione») si tramuta in «ricusa le prove»; in 8, 528, planguntur, ovvero «si battono il petto», diventa «urlando da (sic) disperate».

In moltissimi altri luoghi, Sermonti sembra aver colto il senso del testo, ma, nella traduzione, deforma Ovidio (per dare alla resa un ritmo più accattivante? Per stupire con bravate lessicali un po’ kitsch?). Così, per esempio, siluasque tenent delphines (1, 302), ossia «e i delfini occupano le selve», diventa «i delfini parcheggiano (sic) nelle foreste»; iuuenali … pugno (3, 626) diviene «col suo manone di ferro», e uario … uulnere (10, 375) «da tante mazzate». La raffinatissima espressione di 4, 777, caratterizzata da duplice enallage, siluis horrentia saxa fragosis («rocce irte di selve scoscese»), diviene, in lingua sermontiana, «rupi scapigliate (sic) d’aspre boscaglie». Per l’irresistibile influsso di un sintagma nazionalpopolare iuuentus (10, 316) si trasforma in «la meglio gioventù». Nel tradurre 15, 141, Sermonti scrive «nel mettere sotto i denti costate di manzo». E perché non controfiletti o trippa? Ovidio ha evocato genericamente boum … caesorum membra («le membra di buoi ammazzati»). Meglio interrompere qui la disamina, da cui risulterà – temo – che chi cercasse una traduzione affidabile delle Metamorfosi dovrebbe tenersi alla larga da questo libro, il quale forse piacerà agli estimatori della scrittura di Sermonti, ma stenta a restituire barlumi del vero Ovidio.