Figlia di due immigrati irlandesi, fuggiti dall’odore di bruciato che permea l’aria nell’isola natia – un sentore di fuoco ormai spento, di ceneri umide – Marie ha due fessure nere al posto degli occhi, che vedrebbero tutto sfocato se non portasse occhiali dalle lenti spesse, grazie ai quali non perde un solo dettaglio di quanto succede intorno a lei nella via di Brooklyn, dove è andata a abitare. Pareva sempre che la casa di qualcuno fosse stata devastata da un incendio, racconta la madre: «Ti dà l’impressione che poco lontano qualcuno abbia molto sofferto, e di vivere perennemente all’indomani di quel dolore».

Poche pagine dentro l’ultimo romanzo di Alice McDermott, e il pronome che gli dà il titolo – Qualcuno (traduzione di Monica Pareschi, Einaudi, pp. 256, euro  18,00) si impone in tutta la sua indeterminatezza, come la presenza più costante di questo mosaico di storie comuni, di vite ordinarie, tra cui quella della protagonista non fa eccezione.
Marie osserva ogni cosa, però se qualcuno la saluta, l’occhio le cade immancabilmente sulle scarpe ben lucidate, perché è una bambina timida, cui la madre deve dare una gomitata nelle costole per costringerla a salutare. Marie parla poco, ma i suoi occhi difettosi non si perdono il grembiule bianco appallottolato sotto il braccio e il sacchetto di pane che il vicino stringe tra le mani, non appena sente l’odore del pane da poco sfornato. Né si perdono il soprabito azzurro polvere e i guanti color tortora del personaggio chiamato Pegeen quando sbuca dalla metropolitana, ma soprattutto la lunga scala a pioli che porta disegnata sulla gamba, i fili strappati della smagliatura in seguito a una caduta, pochi giorni prima che per colpa di un’altra rovinosa caduta Pegeen muoia, ancora giovanissima.

La ragione di quelle cadute non la sapremo mai: Alice McDermott è una scrittrice troppo sapiente per rivelarla, ma fornisce a chi legge tutti gli elementi per elaborare le proprie congetture. D’altronde, per buona parte del romanzo vediamo le cose attraverso gli occhi di Marie bambina più che di Marie adulta, e non ci stupiamo che stringa in una frase solo all’apparenza maldestra l’importanza della memoria: «Mi sono dimenticata di ricordarmi una cosa». E anche se forse è l’odore pungente dell’aceto spruzzato sulla carta di giornale con cui una vicina pulisce i vetri a consentirle di rimettere a posto le cose dentro di sé secondo una logica – «Mi sono appena ricordata che ho dimenticato una cosa» – si ha la sensazione che non scordarsi di ricordare sia la scoperta più grande che Marie fa quel giorno sugli scalini della sua casa.

Il primo ricordo strappato all’oblio è proprio il quartiere dove Marie vive con i genitori e il fratello, la Brooklyn tra le due guerre, prima che diventasse il luogo di degrado dal quale tutti avrebbero cominciato a fuggire. Un luogo agli antipodi rispetto «a casa», l’Irlanda così segnata dalla presenza della morte, nella quale la madre di Marie ha il terrore di ritrovarsi nei suoi ultimi giorni di vita, al punto che il figlio è costretto a prenderla in braccio e a portarla giù per mostrarle che è ancora lì: «Non è casa. È Brooklyn». Brooklyn con il suo odore di gas di scarico, di immondizia e di inceneritore. Con i suoi rumori – voci di bambini che urlano parolacce, grida di adulti che litigano dalla finestra aperta, musica troppo alta alla radio, dove la gente ormai dorme con la luce accesa per tenere lontane le blatte. L’«isola sovrana» che pure Marie, ormai adulta, è riluttante a lasciare.

Mentre gli sguardi ottusi degli altri sfiorano la superficie delle cose senza comprendere, Marie da bambina scruta a fondo ma non sa interpretare. Anche da adulta Marie evita le congetture, più propensa a sospendere il giudizio su quanto le accade intorno.
Dietro di lei, Alice McDermott non mostra un atteggiamento molto diverso nei confronti dei personaggi. Scrive elargendo a tutti una grande empatia, perfino a quelli esecrabili come il fidanzato opportunista di Marie, di cui condivide lo stato d’animo con rara abilità narrativa. Respinta dal fidanzato per una donna più ricca, Marie a un certo punto confessa: «Avevo voglia di mettermi le mani dietro il collo e sganciare la carne dallo scheletro, aprirla lungo la cerniera della spina dorsale, uscire dalla mia pelle e gettarla a terra. La schiena le spalle la pancia e il seno. Calpestare tutto». Parole che rivelano come l’empatia dell’autrice si estenda dai personaggi alla condizione umana, ciò che le consente tanta feroce sincerità.

Via via che invecchia, Marie continua a osservare e a parlare poco. E quando il fratello molto amato, che da tempo ha rinunciato al sacerdozio lasciando il seminario prima dei voti, una sera esce di casa nudo, e in lacrime comincia a correre per il quartiere, Marie sposata e con figli ormai grandi lo ospita a casa sua, e pure stavolta non fa domande. Del resto era stato proprio il fratello a dirle, molti anni prima: «Non bisogna per forza chiedere. E nemmeno credere è indispensabile». Accanto all’empatia per i personaggi, McDermott mette ampie zone di non detto: così costruisce il suo caleidoscopio di storie nella storia di Marie, con i dettagli che illuminano la vita della gente semplice, aggirando una grande lacuna.
Al fratello, una volta persa la fede – proprio a lui, il personaggio dal quale meno ci si aspettava che potesse perderla – basta la speranza: una luce fioca nel romanzo, dove abbonda invece la carità, che in inglese si dice con una parola semplice – love.