Alzi la mano chi si è meravigliato della battuta di Matteo Renzi. In realtà, c’era da meravigliarsi che continuasse a mancare dal suo repertorio. Ma non si creda che gli sia stata suggerita da uno dei suoi spin doctor. È farina del suo sacco. È spontanea. Anche se, sotto sotto, c’è la curiosità di vedere l’effetto che avrebbe prodotto nel mondo sindacale un premier che fa sua l’opinione in circolazione da chissà quanto tempo tra i clienti di un bar, mentre sorseggiano l’aperitivo, o di un barbiere, mentre aspettano il turno. Dunque, non si può liquidare la battuta come se fosse una improvvisazione.

C’è invece più di un motivo per dare ragione ad Altan che proprio in questi giorni si sta chiedendo se sia «meglio una politica che non fa un tubo o una che ne combina una ogni giorno». L’ultima, infatti, è quella di avviare un discorso pubblico sulla riforma del sistema sindacale nella maniera più dirompente possibile, valorizzando cioè la banalità e speculando sulla disinformazione e sui pregiudizi.
Non a torto, perciò (per riportare un po’ di razionalità e al tempo stesso dimostrare come i sindacati sappiano bene ciò che devono fare) l’attuale Segretario generale della Cisl Annamaria Furlan ha ritenuto di doversi richiamare al trittico confederale assemblato con la Confindustria nel cosiddetto Testo Unico del 2014, anch’esso animato dalla trasparente intenzione di prefabbricare l’impianto di un futuribile intervento legislativo che lo stesso Renzi parrebbe disposto a congetturare. Io tuttavia sono del parere che, anche qualora tale evento si producesse, il problema della rappresentanza sindacale si porrebbe egualmente. Infatti, la rappresentanza sindacale è in crisi non solo a causa del vuoto di diritto in cui la contrattazione collettiva vive da una settantina di anni, ma anche (e ormai soprattutto) perché si è affievolita la capacità del sindacato di rispecchiare la realtà.

È da qui che bisogna partire ed è per questo che bisogna verificare la qualità della rappresentanza che il sindacato è capace di offrire di fronte alla domanda proveniente da una base mutata sia nella sua composizione socio-professionale che sul piano antropologico-culturale, a cominciare dall’universo femminil-giovanil scolarizzato.
Viceversa, pur essendo ricco di soluzioni giuridico-formali nel tentativo, in sé encomiabile, di far uscire il contratto collettivo da una crisi dipendente dall’eccesso d’informalità, il Testo Unico non contiene se non un principio di risposta: la sola fessura da cui trapela la consapevolezza della sua esistenza è costituita dalla previsione che i contratti nazionali saranno sottoscritti «previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori a maggioranza semplice».

Si mettano pure da parte le perplessità causate dall’indeterminatezza delle procedure e dalla vaghezza della loro obbligatorietà. Accantonare invece non si può la circostanza che nell’insieme il Testo Unico, dando il massimo risalto alla «esigibilità» del contratto collettivo, celebra l’elogio dell’efficacia cogente degli impegni contrattuali e sponsorizza il decisionismo dei vertici nientemeno che al livello che sembra destinato a diventare il fulcro dell’intero sistema contrattuale. Prevede infatti che i contratti aziendali sono efficaci per tutto il personale «se approvati dalla maggioranza dei componenti delle rsu» e, se firmati da rsa, sono sottoponibili a verifica entro certi limiti ed a certe condizioni.
Non può certo sorprendere che il Testo Unico affronti il problema della rappresentanza sindacale nell’ottica della contrattazione collettiva privilegiando il ruolo d’ordine che i firmatari sarebbero tenuti a garantire. Anzi, è onesto riconoscere come sia poco meno che sensazionale che in quella sede le parti abbiano tenuto in qualche modo conto che, dopotutto, la rappresentanza è uno strumento di esercizio del potere del rappresentante sui rappresentati. Questo infatti è un problema che appartiene ad una dimensione schiettamente endo-associativa e la Confindustria non c’entra per nulla né ha qualcosa da insegnare.

Quindi, l’auto-riforma del sindacato è senz’altro la via migliore. In astratto. In concreto, però, non si colgono segni significativi dell’interesse del sindacato ad ispezionare il lato nascosto della rappresentanza che è suo compito esercitare. Lo stesso Testo Unico è rimasto lettera morta. Per questo, può succedere che sia il parlamento – lo stesso parlamento che non senza ingenuità un’opinione pubblica stufa di partiti incapaci di gestirsi in maniera decente sollecita ad occuparsene mediante una legge ad hoc – che finisce per apparire la sede più adatta. In astratto. In concreto, il governo Renzi, che non considera il sindacato come l’interlocutore col quale confrontarsi nemmeno in vista dell’adozione di misure in materia di lavoro, dimostra di volere che faccia la fine dell’articolo 18: scomparire senza la necessità di abrogarlo.