L’Assemblea Capitolina ha approvato giovedì scorso una mozione in cui si chiede a sindaco e giunta di avviare una «interlocuzione urgente e fattiva con governo e prefettura di Roma» per procedere alla chiusura del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria.

È stata necessaria l’ennesima morte di detenzione amministrativa perché il Campidoglio si rendesse conto dell’esistenza, nel proprio territorio, di un luogo di pura afflizione che si pone al di fuori del nostro stato di diritto. Eppure il Cpr della capitale, attualmente gestito dalla multinazionale elvetica Ors, ha una lunga e non nobile storia: aperto 26 anni fa e mai più chiuso, è l’unica struttura in Italia ad avere anche una sezione femminile. Passato agli onori delle cronache nel 2014 per la cosiddetta «protesta delle bocche cucite» e nel 2015 per la detenzione illegittima di 69 donne nigeriane sopravvissute alla tratta, questo centro continua a mietere vittime.

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Basti ricordare la tragica morte di Wissem Ben Abdelatif, avvenuta nel novembre 2021 nel reparto psichiatrico del San Camillo dove era finito direttamente dal Cpr, e ora quella di Ousmane Sylla, 21enne guineano che si è tolto la vita dopo cinque mesi di trattenimento, non riuscendo più a sopportare l’insensata violenza di questo sistema detentivo.

La mozione approvata dall’assemblea capitolina è sicuramente una buona, seppur tardiva, notizia. Tuttavia sarà del tutto inutile se non si accompagnerà a una reale pressione istituzionale per giungere realmente alla chiusura del Cpr di Ponte Galeria e di tutti gli altri luoghi di detenzione amministrativa presenti nella nostra città. Si pensi ai «locali idonei» presso la questura di Roma, utilizzabili in caso di indisponibilità di posti nei centri detentivi quando è possibile eseguire in breve tempo l’espulsione. Nei fatti, luoghi di privazione della libertà personale ancor più invisibili degli stessi Cpr. Quanti, tra coloro che governano la città di Roma, ne conoscono l’esistenza? Quanti sanno cosa accade lì dentro?

Nel tempo si sono susseguite in Italia diverse Commissioni d’inchiesta che hanno sempre evidenziato le criticità della detenzione amministrativa. In genere questi organismi lavorano per «migliorare il sistema» evidenziandone le tare. Rappresentano forme di monitoraggio e controllo istituzionale: l’istituzione controlla se stessa e si mette al riparo dai danni. Sarebbe rivoluzionario, invece, costruire una Commissione che lavori per la chiusura di queste strutture, che mai come ora si dimostrano luoghi di violazione dei diritti fondamentali.

Il Campidoglio dovrebbe puntare a istituire immediatamente una Commissione d’inchiesta che faccia luce sulle «zone grigie» presenti sul territorio, luoghi in cui le persone migranti subiscono una quotidiana sospensione dei diritti più basilari. Una Commissione per la chiusura del Cpr di Ponte Galeria che prenda la parte di chi vi è imprigionato, di chi protesta, di chi abbatte il muro del silenzio. Una Commissione che coinvolga i Garanti locali delle persone private della libertà personale, le comunità razzializzate, le associazioni che quotidianamente lottano al fianco delle persone migranti e soprattutto uomini e donne trattenuti/e.

Il primo fine dovrebbe essere quello di inchiodare alle proprie responsabilità chi, a vario titolo, è coinvolto nella gestione di Ponte Galeria: Ors, prefettura, questura, Asl. Ciascuno di tali soggetti dovrebbe rendere conto delle condizioni indegne in cui sono detenute le persone: delle mancate ispezioni dell’autorità sanitaria per verificare la salubrità dei luoghi, dell’abuso di psicofarmaci somministrati senza alcuna prescrizione medica, delle visite di idoneità al trattenimento funzionali a garantire il profitto del privato che guadagna sul numero di detenuti.

Questa Commissione dovrebbe servire ad accelerare il processo di chiusura per dare forza alle ragioni – anzitutto – dei detenuti che da giorni stanno protestando contro le condizioni di trattenimento. Persone che prima hanno subito la violenza di un sistema detentivo inumano, poi hanno assistito al suicidio di un compagno di prigionia e infine sono state arrestate per essersi ribellate. Una Commissione che parta dall’importante sentenza del tribunale di Crotone di dieci anni fa (n.1410/2012) che giudicò una forma di «legittima difesa» la protesta dei trattenuti nell’allora Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Isola Capo Rizzuto.

*Campagna LasciateCIEntrare
**Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili