A una settimana esatta dall’annuncio dell’offensiva di primavera, i Talebani colpiscono Kabul con un attacco spettacolare. Un camion carico di centinaia di chili di esplosivo è stato fatto esplodere contro una sede dei servizi segreti afghani (foto LaPresse) che ha il compito di proteggere i più alti funzionari del governo. In seguito, alcuni militanti sono entrati nell’edificio, dove sembra si svolgesse un corso di addestramento, ingaggiando una battaglia con le forze di sicurezza, prima di essere uccisi. Sono almeno 30 le vittime accertate, tra cui molti civili, e 327 i feriti, trasportati negli ospedali della città, tra cui quello di Emergency. L’attentato è stato condotto in una delle zone più protette e controllate della capitale: un segno della capacità dei Talebani di colpire ovunque. E una vera e propria sfida agli apparti di sicurezza del governo di Ashraf Ghani, che nei giorni scorsi avevano sventato due attentati della rete Haqqani, una delle fazioni più pericolose della galassia dei «turbanti neri», a cui molti già attribuiscono la responsabilità della carneficina di ieri.

I Talebani hanno rivendicato l’attacco come parte dell’«Operazione Omar», l’offensiva di primavera annunciata martedì 12 aprile, quest’anno dedicata al mullah Omar, il defunto leader. Nel comunicato sull’Operazione Omar, si rintracciano i temi classici del movimento: il jihad non è solo un diritto, è un dovere di tutti gli afghani che hanno a cuore la difesa del Paese «dagli invasori occidentali»; la battaglia andrà avanti fino a quando l’ultimo militare straniero non lascerà l’Afghanistan. Ma ci sono novità: per la prima volta, si parla non solo della necessità di conquistare aree e centri urbani, ma anche di pianificare la fase successiva del controllo e della gestione dei territori conquistati. I Talebani non mirano soltanto a mettere in difficoltà il governo Ghani, già indebolito da una profonda crisi politica, ma mirano sempre più a presentarsi come un’alternativa valida.

Che il governo afghano sia in profonda crisi, lo dimostra la visita di John Kerry, il segretario di Stato Usa, arrivato a sopresa il 9 aprile a Kabul, dove ha incontrato sia il presidente Ghani sia il «quasi primo ministro», Abdullah Abdullah. É stato proprio Kerry, nel settembre 2014, a imporre la coabitazione forzata ai due, che si accusavano reciprocamente di brogli elettorali: governate insieme o niente soldi, aveva detto Kerry. Ne è nato un accordo per un governo bicefalo: accanto alla carica del presidente, è stata istituita una nuova figura, quella del Ceo, Chief of Executive Officer, destinata appunto ad Abdullah. L’accordo avrebbe dovuto ricevere l’approvazione, entro due anni, di una Loya Jirga, una grande assemblea di notabili, con il compito di emendare la Costituzione, che ora non prevede la figura del Chief of Executive Officer. Ora che la «scadenza» del governo bicefalo si avvicina, da Kabul Kerry dice che le cose non stanno così: il governo dura cinque anni, non due. La cosa ha fatto infuriare molti esponenti politici afghani, che hanno bollato le parole di Kerry come l’ennesima «interferenza indebita» degli americani. Anche l’ex presidente Karzai ha preso la palla al balzo per tornare a criticare l’influenza americana in Afghanistan, di cui ha a lungo beneficiato. Mentre i Talebani hanno incassato l’assist, tornando alla carica sul governo «servo degli americani».

Ma anche i «turbanti neri» hanno i loro problemi: dall’annuncio della morte del mullah Omar, nel luglio 2015, il movimento è spaccato tra quanti contestano la nomina di mullah Mansour come successore, e quanti invece gli hanno tributato fedeltà. Negli ultimi mesi, mullah Mansour ha lavorato molto per riguadagnare la leadership e il consenso del movimento. In parte ci è riuscito, ma le spaccature rimangono. Con le solite ipocrisie dei barbuti. Nei comunicati ufficiali, nelle direttive interne, si dichiarano contro il governo Ghani e contro gli occupanti stranieri, ma vicini al popolo afghano, che intendono proteggere. In pratica, le cose vanno diversamente: secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, nei primi tre mesi del 2016 ci sono state 1.943 vittime civili (600 morti e 1.343 feriti), con un incremento del 2% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (13% in meno di vittime, 11% in più di feriti), il 60% delle quali è imputabile proprio ai «barbuti». Ma il dato più preoccupante è un altro: rispetto all’anno scorso, si registra un significativo aumento (il 26%) delle vittime causate da attacchi suicidi e complessi, come quello di ieri mattina. E negli attentati nei centri urbani, ci rimettono soprattutto i bambini (+29%). L’offensiva di primavera è appena cominciata. Ma si annuncia particolarmente sanguinosa, quest’anno.