Sull’orizzonte velato di nubi, il mare si muove un po’ capriccioso. Cannes, Costa azzurra, il festival si chiude ufficialmente oggi, stasera sapremo chi avrà conquistato tra i diciannove film in concorso il cuore imperturbabile dei fratelli Coen e della loro giuria. Intanto la città si affolla, un sabato pomeriggio speciale, i festivalieri partono, gli stand del mercato del cinema si sono svuotati già ieri, e le grosse barche yatch e quant’altro affollano la costa, pronti ai party del gran finale. Chi vincerà? Mia madre di Nanni Moretti tiene il punto, e si parla anche di The Assassins di Hou Hsiao Hsien, di Youth di Sorrentino … E de Il figlio di Saul, opera prima di Laszlo Nemes, o di Carol di Todd Haynes, The Lobster di Yorgos Lanthimos. Vedremo. Noi domani non saremo in edicola ma i premi saranno sulla nostra versione digitale, www.ilmanifesto.it). Intanto abbiamo voluto giocare un po’ con le immagini e le storie di questi giorni provando a comporre un piccolo «alfabeto» per ripercorrere i luoghi di Cannes 68.

Bosco

È la figura che attraversa gli schermi di Cannes 68, spazio di fuga, metamorfosi, alterità, disincanto. Nel bosco reale e fantastico si incontrano, e entrano uno nell’altro, uomini e dei, geni e streghe intessono i loro desideri e rimpianti, inseguono i fantasmi dei loro desideri e le ossessioni dei loro ricordi. Nel bosco si immerge la narrazione de Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, è lì che che le tre donne (a proposito di un bel femminile) delle sue storie si confrontano col proprio destino e con le trasformazioni che provocano le loro scelte. Un bosco è l’altra parte del mondo accoppiato di Yorgos Lanthimos (The Lobster), anche se le creature che lo popolano, umani che decidono di essere singoli, appaiono in quella natura speculari all’ordine della società. È la foresta di suicidi in Giappone la figura con chi Gus van Sant trasforma in immagine l’elaborazione del lutto del suo protagonista (The sea of trees), e il bosco diviene il limite di una fuga impossibile in Il figlio di Saul. Nella foresta sacra il tempo della Storia si incarna nel desiderio, e i vivi e i morti creano una zona alterità (Cemetery of Splendour).

madreagain

Donne (da favola)

È stato senza ombra di dubbio il festival delle fiabe. Durante i dieci giorni di Cannes, i festivalieri hanno provato l’impressione di partecipare a un nuovo decamerone. Ha per primo preso la parola Matteo Garrone, portandoci in un universo impuro, costituito da architetture del sud dell’Italia riempite del suono della lingua di Shakespeare. Poi sono venuti i tre film di Miguel Gomes, L’inquieto, Il desolato e L’incantato, riuniti sotto il titolo: Le mille e una notte. Gomes ci ha portato più a sud (Bagdad), più ad ovest (la piccola città di Resende, la periferia di Lisbona), più a nord (Marsiglia), più ad est (l’Europa dei banchieri, di Francoforte). Tra questi due grandi racconti di racconti, hanno riempito le sere altri narratori di fiabe: Corneliu Porumboiu con un Robin Hood rumeno (Il tesoro) e Benoit Forgeard con un fantomatico presidente cantante (Gaz de France). Ma i maestri della favola sono Garrone e Gomes. In entrambi è posto come un evidenza che il potere di raccontare è il potere per eccellenza delle donne. È attraverso i loro occhi che la realtà si reinventa.

Fantasmi

Dopo che anche l’ultima goccia di plusvalore è stata stillata dai corpi, non resta che un solo modo per sottrarsi alla logica della produzione. Sabotare la circuitazione della valuta-corpi: diventare fantasmi. E non meraviglia perciò che i fantasmi, gli ultimi resistenti, abbiano invaso i migliori film del festival. Se la morte è il punto terminale del consumo, il fantasma si spinge oltre. Non solo smette di consumare, interrompendo la catena di montaggio del consenso, ma progetta esistenze altre, nuove. Dalle rive dei fantasmi di Kiyoshi Kurosawa (Journey to the shore), alle soggettive galleggianti di Hou Hsiao Hsien (The Assassins), alla Cina di Jia Zhang Ke (Mountain May depart), ai dormienti di Apitchapong Weerasethalkul (Cemetery of Splendour) per giungere al cane Dixie della trilogia gomesiana, i fantasmi occupano lo spazio che ai loro corpi è stato negato in vita, nella storia. Come dimensioni e voci e storie vissute e tutte ancora da vivere, s’intrecciano in una sinfonia del possibile e della seduzione. Il fantasma diventa l’immagine di ciò che è stato, ma anche di ciò che non potrà mai essere rimosso. Angelica e la signora Muir sorridono.

24CAROLTODDHAYNESCATEBLANCHETT

Finanza

Dal tesoro di Porumboiu (The treasure) al Portogallo strozzato dai debiti, alla Cina neoliberista di Jia Zhang-ke, passando per l’ufficio di Hong Won-Chan, la finanza (leggi la crisi della grande finanza) è stata il sotto testo di moltissimi del festival. Tutti devono fare i conti con la contrazione (ristrutturazione) del mercato. E il paesaggio che emerge da Cannes 68, è quello di una battaglia feroce, in atto. La madre di Clotilde Courau nel bellissimo film di Garrel esorta la figlia a trovarsi un uomo che sappia fare un lavoro, non documentari. Lei risponde che lui, il suo uomo, sa ascoltare. Sa fare delle domande. E il punto è proprio questo. Vedere non è necessario (stando alle vestali del consumo). Quindi, lavorare. Ristrutturare il mercato. Nell’afghanizzazione della lotta al narcotraffico prospettata da Sicario, si ipotizza che un padrone unico è una soluzione praticabile. Meno problemi. Il denaro deve continuare a muoversi; se la gente si ferma, alle frontiere, sui barconi, poco male. Nell’orizzonte del dominio dell’economico, capita pure che risplenda il Sol dell’avvenire come nel film di Porumboiu. Un futuro che si annuncia sulle note marziali dei Laibach. Vivere è vivere.

Malintesi 1 (Il femminile)

Si è molto parlato di donne sulla Croisette in questi giorni, a cominciare dall’ iniziativa Women in motion, sostenuta dal gruppo Kering, uno dei nuovi sponsor del Festival pensata per fare il punto sullo statuto delle donne nell’industria cinematografica. E Thierry Fremeaux che in passato ha ricevuto molte critiche per l’assenza di cineaste nella sua selezione, quest’anno ha affidato l’apertura al film di una regista, Emmanuelle Bercot (A testa alta), e invitato in concorso Valerie Donzelli (Marguerite e Julien) e Maiwenn (Mon Roi). Se è vero che ci sono buoni o cattivi film e questo vale al di là del gender – qualcuno peraltro malignava che Fremaux ha volutamente invitato film mediocri per sottolineare l’incapacità delle donne a farne – il paradosso è che il «tocco femminile» ci ha mostrato personaggi di donne estremamente cliché, come se fossero tratteggiati per aderire agli stereotipi più banali del maschile. Il «Mon roi» di Maiwenn a cui la regista è visibilmente più interessata rispetto alla sua protagonista-io narrante, figura opaca e anche un po’ noiosa, di fronte alla quale si finisce per capire la voglia di fuga del «poveretto». Piuttosto piatta anche la madre di Bercot in A testa alta (Sara Forestier) , causa primaria delle turbe del figlio. Meno male che c’è la giustizia (e un giudice come Catherine Deneuve) a riportarlo sulla retta via. Principio di disordine ma insieme al fratello nella loro passione incestuosa la Marguerite del film di Donzelli, quello che manca nello sguardo della regista, che raffredda con grazia leziosa il potere sovversivo della sua storia. Un femminile sensuale ce lo racconta invece Apichatpong Weerasethakul nel suo magnifico Cimitero dello splendore, così come Jia Zhang/ke in Mountain May Depart. Le loro donne vivono relazioni con ragazzi più giovani (Sorrentino non capirebbe mai) come anche in Amnesia di Barbet Schroeder, in cui si mescolano conoscenza, cura, desiderio, seduzione. È un femminile complesso e pieno di sfumature. Sarà semplicemente allora una questione di cinema?

24ilraccontoGARRONE

Malintesi 2 (Il cinema «politico»)

Cosa vuol dire oggi fare un cinema «politico»? Nelle sue scelte il Festival ha voluto scommettere sullo «stato del mondo», perciò crisi, finanza, impoverimento, ricatto di Fondi monetari e Troika, disoccupazione, migranti, il lato diffuso dell’Europa. E però non sono «politici» film come La loi du marchè di Stephane Brisè o Dheepan di Jacques Audiard (in gara) che invece rivendicano questo statuto. Il politico è piuttosto nei paesaggi fantastici di Weerasethakul o di Gomes che i loro personaggi proletari li amano davvero, e ci parlano di guerra , dittatura, ricatti neoliberisti inventando una forma del raccontare, e allenando al massimo le loro immagini per contenerla. Non si tratta di dichiarare l’esistente, ma di guardare oltre, di ottenere quel massimo di realtà rovesciandone i dettagli nel fantastico. Un casermone di periferia dove si muovono il cane Dixie e il suo doppio (Le mille e una notte, lo stupendo Dixie ha vinto la Palma per il miglior cane!), una scuola dove i soldati dormono. Le trasformazioni della Cina e i suoi conflitti attraverso una storia d’amore (Mountain May Depart). Il soggetto non giustifica l’immagine e anzi la realtà richiede ancora più sforzo di invenzione per rivoluzionarne le regole. Il politico in un film come l’apertura A testa alta punta a difenderle, ci si compiace del proprio sistema, di una giustizia che funziona o di eroici singoli che dicono basta (la loi du marche’). E poi tutti a casa contenti, i «valori» sono salvi.

tiby-la-star-chimpanze-du-film-cosmodrama_1474647_800x400

Stars (parlare con le stelle)

Una canzone ritorna spesso (in versioni differenti) ne Le Mille e una notte: Calling Occupants of Interplanetary Craft. Bisogna sapere che la musica pop è la matrice di tutti i film di Miguel Gomes. E allora viene da chiedersi la ragione dell’accostamento. Cosa c’entra l’universo new age con il cielo sopra Bagdad ?
Per capirlo bisogna tornare all’Acid, dove è stato proiettato Cosmodrama di Philipe Fernandez. Cosmodrama è film curioso, che ci riporta all’epoca delle dispute tra analitici e continentali della vecchia serie televisiva Star Trek. Una squadra di sapienti è inviata nello spazio per interrogarsi sulle questioni fondamentali della conoscenza. Fernandez è molto abile a utilizzare dei personaggi per incarnare diversi punti di vista (lo scienziato, il filosofo, la biologa, la neuroscienziata, il meccanico, il musicista…). Si tratta di parlare con le stelle, insieme e per mezzo di esse. Cosmodrama è una buona metafora del festival, che ha cercato nella materia infinita del racconto la forma stessa del raccontare. Gomes direbbe che, osservando una realtà particolare (per esempio i proletari che catturano gli uccelli canterini, come nella seconda parte de L’incantato) si finisce per scovare una miniera infinita di storie fantastiche. È in questa maniera che il reale si rovescia nella finzione e viceversa: entrambi sono una chiamata poetica, un modo dell’abitare che, come sostiene Oliveira/Hölderlin nel film inedito mostrato qui al festival, Visita ou memorias e confissoes, si rivolge «alla terra e al cielo, al divino e all’uomo».