Mattone dopo mattone, il «muro» delle minoranze del Pd si sgretola. A picconarlo è Matteo Renzi in persona: l’ipotesi della fiducia, sempre più reale, mette con le spalle al muro Area riformista; il governo deciderà martedì, lo annuncia lo stesso presidente del consiglio a 8 e mezzo sul La7. Ma a rompere le ultime resistenze è la minaccia di voto anticipato: «Se non passa l’Italicum, credo proprio che il governo cade. Se il governo, nato per fare le cose, viene messo sotto allora vuol dire che i parlamentari dicono: andate a casa. Non sono per tenere poltrona aggrappata alle terga», dice ancora a Lilli Gruber. In questi giorni nei corridoi di Montecitorio le minoranze interne fanno circolare l’ipotesi esattamente opposta: se passa l’Italicum Renzi vorrà usarlo per tornare alle urne presto, prestissimo, per questo è disposto a buttare a mare le riforme costituzionali.

Ma contro le materialissime ragioni del segretario ormai non c’è più partita per nessuno. Gli irriducibili all’Italicum restano in pochi, forse pochissimi: Stefano Fassina, Alfredo D’Attorre, Rosy Bindi, Pippo Civati. Non a caso, fra loro non c’è il gruppo di punta di Area riformista. Anche Roberto Speranza fa sapere che anche da capogruppo dimissionario «sarà leale al partito». Enrico Letta ha spiegato di non aver ancora deciso cosa fare sulla legge elettorale, che pure ha criticato in questi giorni. Anche Prodi ha attaccato il premier. Ma il premier ha liquidato entrambi con una battuta sprezzante: «Hanno due libri in uscita».

Renzi continua a giurare che non farà espulsioni, ma dopo la rimozione dei dieci commissari dalla commissione di Montecitorio, fra loro anche i big dell’opposizione interna, ormai l’aria che tira nel Pd è quella della resa dei conti finale. Chi non si arrende (all’Italicum) verrà accompagnato all’uscita dal coro degli ascari. Gianni Cuperlo è oggetto dell’ultimo smacco: escluso alla kermesse bolognese per i settant’anni delle feste dell’Unità, è stato invitato in zona Cesarini per la chiusura del 3 maggio: ma solo per ascoltare il comizio di Renzi. Cuperlo ha deciso comunque di andare «in segno di pace, perché voglio bene al Pd e perché spero che il partito, almeno di fronte alle tragedie del mondo, si mette alle spalle maggioranze e minoranze e riscopre l’unità», spiega. Ma l’unità è un brand rottamato nel Pd, e anche il giornale del partito, di cui era annunciata la riapertura per oggi, è impantanato. D’Alema ha preso malissimo l’esclusione dall’appuntamento bolognese, incomprensibile del resto se non nel clima dell’ostracismo verso le minoranze: «Si vede che come ex direttore dell’Unità non sono stato ritenuto adeguato, ha provveduto Guerini che proveniendo dalla corrente andreottiana della Dc conosce l’Unità meglio di me». Vetriolo in direzione del Nazareno, che ha messo del suo nell’organizzazione dei dibattiti. Anche Bersani non è stato chiamato nel capoluogo della regione di cui è stato presidente. Ma con lui, che alla fine voterà sì alla fiducia, Renzi vuole fare pace: «Hanno fatto male a non chiamarlo. Lo manderemo a prendere con la macchina, oppure viene da solo, è adulto»
A Montecitorio le cose non vanno meglio. Pippo Civati fa balenare l’ipotesi di un nuovo gruppo parlamentare che «ripristini la rappresentanza di Italia Bene Comune», l’alleanza ormai morta e sepolta, ma grazie alla quale il Pd ha ottenuto la valanga di parlamentari con cui governa. Per fare un gruppo servono venti deputati disposti a rompere gli ormeggi. E per ora sono proprio tanti, troppi.