Cosa ti spinge a salire sull’Everest? Lo chiede guardandoli diritti negli occhi a ognuno dei suoi la protettiva guida Rob Hall, strani tipi, tutti uomini, una sola donna giapponese piccolina e coraggiosa. Già perché lo fanno pagando cifre astronomiche, massacrandosi di fatica, mettendo a rischio la salute del corpo; si può perdere qualche dito delle mani o dei piedi, a avvicinarsi al «tetto del mondo», 8848 metri, l’aria è così rarefatta che il corpo comincia a morire.
I motivi sono i più strani, una promessa ai bimbi della scuola del più timido di loro, working class che si barcamena con mille lavoretti, postino, falegname, fisico fragile e un po’malmesso.
Ci ha già provato due volte, e l’organizzatore, Hall, gli ha fatto anche uno sconto. Poi c’è Beck Weathers, texano doc che a casa con la moglie si sente avvolto da una nube nera… Sfida, mettersi alla prova, voglia di un brivido, attrazione per la wilderness, il campo base dell’Everest è una specie di bivacco, e negli anni gli «operator tour» della scalata si sono moltiplicati. Tutti insieme si sfiniscono negli allenamenti, dormono in piccole tende sotto la cima, pregano coi monaci buddisti e la sera c’è chi beve e balla.
Come è finita la storia di questo gruppo lo sappiamo.

 

 

Everest, che ha aperto ieri la Mostra del cinema numero settantadue – in sala il Presidente Mattarella, i nuovi vertici Rai, e il sindaco Brugnaro, fuori i dipendenti comunali vittime della corruzione miliardaria del Mose – è tratto infatti da Aria sottile, il libro in cui Jon Krakauer, lo stesso autore di Into the Wild che ha ispirato il film di Sean Penn, racconta l’esperienza di quella spedizione del novantasei, a cui anche lui ha partecipato, dove morirono cinque persone tra cui le due guide, Hall e Fischer.
Baltasar Kormákur, il regista, nell’incontro stampa, ha detto che ad attirarlo in questa vicenda è stata la commistione tra epica e dimensione intima, «che sono le parti fondamentali di ogni film popolare», e il suo lato metaforico, «che ci aiuta a capire meglio come ci relazioniamo con la natura».                                                                                                                                       

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L’altro giorno però parlando di Everest il campione della montagna Reinhold Messner lo ha criticato a scatola chiusa, per le location finte, piste di sci in cui non si può sentire l’altezza, di quegli ottomila e più che impediscono anche di respirare (lui che saliva senza ossigeno) e l’aspetto parziale nella ricostruzione. Lasciamo da parte l’aspetto «tecnico» che non è mai tale, o da esperti. Cosa ci dice questa storia?
Che due tipi, anche bravissimi, si sfiniscono per il business, che le cose sono precipitate per incuria, gli sherpa nepalesi non hanno messo le corde uno troppo impegnati a seguire la celebritiy di turno, una giornalista che garantiva col suo servizio più fama al team e dunque più clienti.

 

 

I due organizzatori, di solito rivali anche nei metodi – uno più eccessivo, Scott Fischer (Jack Gyllenhaal), che saliva senza bombole e si ubriacava ogni sera, l’altro Rob (Jason Clarke) molto attento alla preparazione del gruppo prima di affrontare l’impresa e inflessibile nel porre il veto di avanzare alle prime avvisaglie di malesseri pericolosi – perdono lucidità per il troppo lavoro, per voler portare in cima molta gente e garantirsi un numero più alto di spedizioni riuscite, anche questo per incrementare il business.
Fino a doversi unire perché sull’Everest c’è un tale traffico di persone che si perderebbe troppo tempo prezioso. In fondo, come insegna una delle guide, si può prevedere tutto ma è la montagna ad avere sempre l’ultima parola.

 

 

Ed è proprio questa forza ineffabile, la potenza della natura e il paradosso di una wilderness di massa che Kormákur non riesce a mettere a fuoco nelle sue immagini, a cui non basta il 3D, peraltro usato in modo piuttosto banale, a dare fisicità e a restituire quel sentimento di follia.
Non sentiamo la fatica, lo stupore, la lotta, ma nemmeno l’assurdo di quella pretesa di addomesticare come un qualsiasi Tour da Avventure nel mondo – pago dunque voglio arrivare in cima e fotografarmi – questa scalata il cui lato impossibile è l’altitudine, che uccide, una vertigine violenta ma senza effetti speciali. O una nuvola nera improvvisa di bufera, o un pezzo di ghiaccio che si stacca, dal bianco di quella vetta sotto i cieli del Nepal.

 

 

Non è scontato filmare la natura nella relazione con l’uomo, serve un punto di vista che Kormákur, islandese, rivelato da 101 Reykjavík (che con The Deep, anche questa una storia di sopravvivenza in un naufragio, ha corso all’Oscar per il miglior film straniero) non assume.
La sua narrazione rimane sul filo degli eventi inanellati uno dopo l’altro, con inserti strappalacrime di morte in diretta e mogli incinte dall’altra parte del telefono, elicotteri che inviati dall’ambasciata americana per salvare il cittadino congelato riescono a vincere anche la mancanza d’aria.

 

 

Tutto vero, probabilmente, ma non basta a restituire il sentimento di questa sfida, ambiguo e complesso, unico per ciascuno degli scalatori dilettanti, insieme al conflitto tra business e natura, una specie di mercato dell’impossibile.
Sull’Everest quegli uomini e donne sembrano cercare una fuga alle loro frustrazioni, una specie di possibilità al loro desiderio di rivincita, coi i lati oscuri dell’esistenza quotidiana che in quella comunità occasionale perdono contorni.
La wilderness fantasmagorica, e la pretesa di raggiungerla con un prezzo.
Ma questo è il fuoricampo, Everest però (nelle nostre sale il ventiquattro settembre) corredato da una parata di star, che certo alla Mostra era funzionale – oltre a Josh Brolin, Jason Clarke e Jake Gyllenhaall, K eira Knightley, Emily Watson, Robin Wright – non arriva mai in vetta nonostante i molti salti di vertigine.
Rimane lì, senza inventiva né rischi, ben regolato da una scrittura – e da una regia – che non prevedono falle.