È nata Sinistra Italiana, sigla dei nuovi gruppi parlamentari che riuniscono deputati e senatori di Sel con altri come Fassina, D’Attorre, Gregori, Mineo usciti dal Pd, ed embrione di un futuro partito che dovrebbe raccogliere, per l’appunto, le membra sparse della sinistra italiana. Al battesimo dell’iniziativa, a Roma al Teatro Quirino, c’era una grande folla, fatta soprattutto di dirigenti e militanti già dei Ds e di Rifondazione comunista, e in tanti casi già anche del Pci. Tutti molto contenti, quasi commossi di ritrovarsi in una sorta di rimpatriata dopo anni da fratelli separati. Io che ero presente, e mi considero di sinistra ma non appartengo a quella storia se non per memorie familiari, ho provato all’inizio una sensazione istintiva di leggero estraniamento, superata la quale mi sono chiesto: è questo ciò che serve per rilanciare in Italia uno spazio e un’iniziativa “di sinistra”?

Cerco di dare la mia risposta in queste righe.

Condivido del tutto la diagnosi su cui nasce questa novità politica: il Pd di Renzi ha smarrito l’identità di partito di sinistra, cioè in parole semplici l’ambizione di riformare la società e l’economia nel senso di una maggiore equità. Condivido la diagnosi e condivido, dunque, l’urgenza di riempire il vuoto lasciato da questo Pd “transgenico” con una proposta di sinistra.

Condivido la diagnosi, invece ho molti dubbi sulla terapia. Uno su tutti: ho il dubbio che le culture politiche della sinistra “prima di Renzi” e chi le rappresenta non siano in grado da soli di organizzare una risposta di sinistra e al tempo stesso contemporanea ed elettoralmente competitiva a questo vuoto.
Il valore dell’eguaglianza resta il cardine indispensabile di un’identità di sinistra, ma deve continuamente nutrirsi dei bisogni e degli interessi del tempo presente. Per esempio – per me un esempio decisivo – oggi l’eguaglianza nelle sue diverse declinazioni – eguaglianza sociale, civile, intergenerazionale, geopolitica – è inseparabile da una forte vocazione ecologica: perché senza un investimento prioritario di risorse economiche, di formazione, di innovazione tecnologica nel miglioramento ambientale, la capacità competitiva e dunque occupazionale della nostra economia e il nostro stesso welfare sono destinati a sbriciolarsi, e rimane solo l’alternativa tra sviluppo insostenibile e decrescita infelice; perché più ancora del debito monetario, quello ecologico scarica sulle generazioni più giovani e su quelle future un costo pesantissimo e iniquo; perché i danni sociali portati dai cambiamenti climatici non sono “democratici”, ma colpiscono molto più violentemente i più poveri (basti pensare al fenomeno già oggi rilevantissimo dei profughi ambientali); perché infine la rapida costruzione di un modello energetico non più basato sui fossili, quasi un’incarnazione dell’odierna idea di guerra, è al tempo stesso la più realistica strategia pacifista e un’efficacissima “arma letale” contro l’economia del terrore basata sul petrolio che alimenta l’Is.

Questa consapevolezza scarseggia in generale nelle sinistre europee di tradizione socialista e comunista, “riformiste” o “radicali” che siano – il che almeno in parte ne spiega la crisi –, ed è quasi assente nelle forze di centrosinistra italiane eredi dei grandi partiti popolari del Novecento. Non ce n’è traccia nelle politiche del partito e del governo di Renzi. Ma non ce n’è nemmeno in molta sinistra “pre-renziana”, a cominciare da Fassina e D’Attorre, e ce n’era pochissima, al di là di qualche ritornello retorico su quanto sono belle le energie pulite e su quanto è terribile il dissesto idrogeologico, anche nei discorsi tenuti al Teatro Quirino dai promotori di Sinistra italiana. In questo senso, la nuova formazione segna addirittura un passo indietro rispetto a Sel, che mettendo la parola “ecologia” nel suo nome sembrava almeno avere capito che la questione ambientale è un tassello decisivo per “dire sinistra” oggi.

L’impressione è che per chi ha pensato Sinistra Italiana l’ambiente sia nella migliore delle ipotesi un “di più” da aggiungere nei programmi e nei discorsi per accontentare una fetta dell’elettorato di sinistra più sensibile al tema, nella peggiore un tema totalmente marginale in un’epoca come l’attuale dominata da drammatiche preoccupazioni materiali come il lavoro che manca o la povertà che cresce. La mia idea su questo è opposta: l’ecologia politica è ciò che i Verdi europei e non solo loro hanno chiamato “green new deal”, cioè la convinzione che solo ponendo al centro delle politiche pubbliche la riconversione ecologica dell’economia si possa dare una prospettiva di sviluppo, di lavoro, di benessere all’Italia e all’Europa.

Per tutto questo mettere insieme le varie diaspore nelle quali si è via via frammentata la sinistra tradizionale non basta per dare vita a un soggetto di sinistra credibile e competitivo. Non basta e anzi rischia di alimentare un’illusione deleteria: che per andare “oltre Renzi” sia sufficiente tornare a prima di lui.