Ci voleva Papa Francesco perché l’esplicita condanna della pena dell’ergastolo fosse pubblicamente pronunciata. E già che lui, motu proprio, nel piccolo Stato della Città del Vaticano la ha già abolita, nel luglio dello scorso anno, quando ha anche reso penalmente perseguibile la tortura.

Noi, invece, siamo ancora qui: giace alla Camera, sottoposta a una sfilza di audizioni, la proposta di legge per l’introduzione del reato di tortura, già approvata (seppure in modo non soddisfacente) dal Senato. E l’abolizione dell’ergastolo è rimasto un ricordo lontano, confinato nell’approvazione da parte di Palazzo Madama del disegno di legge voluto da Ersilia Salvato e limato da Salvatore Senese. Correva l’anno 1997. Qualche tempo dopo ci sono tornate le Commissioni per la riforma del codice penale presiedute da Carlo Federico Grosso e da Giuliano Pisapia, ma mai nessun ministro ha avuto il coraggio di depositare in Parlamento le loro proposte. E così, complice una discutibile giurisprudenza della Corte costituzionale e l’invenzione dell’ «ergastolo ostativo» (l’ergastolo senza possibilità di revisione), gli ergastolani aumentano progressivamente e inesorabilmente nelle nostre carceri.

Sembra di riascoltare le parole di Aldo Moro, nella sua memorabile lezione contro la pena di morte e contro l’ergastolo (ora in Contro l’ergastolo, Ediesse 2009): «L’ergastolo è una pena di morte nascosta», ha detto ieri Papa Francesco a una delegazione di studiosi del diritto penale. E lo ha detto in un discorso non solo contro la pena di morte (con accenti ben più radicali di quelli da lui stesso richiamati dell’Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II e del Catechismo della Chiesa cattolica), contro la tortura, contro la reclusione in carceri di massima sicurezza e contro l’abuso della custodia cautelare, ma più in generale contro l’abuso del diritto penale. «Negli ultimi anni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali», quando invece servirebbe «l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione». «C’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate che concentrano in se stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose». È questo il «populismo penale» che Papa Francesco non ha paura di chiamare con il suo nome, individuando anche le responsabilità di «alcuni settori della politica» e di «alcuni mezzi di comunicazione» che incitano «alla violenza e alla vendetta, pubblica e privata, non solo contro quanti sono responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali ricade il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge».

Intanto, su Micromega, un gruppo di signori perbene inneggia al giustizialismo redentore («Solo il giustizialismo ci può salvare!»), dove si racconta di pene che non iniziano mai, di impunità e di propositi di lavori forzati: così, come se si fosse sul pratone di Pontida.