Come noto, la partenza dell’annuale edizione del Giro d’Italia avverrà dalla Reggia di Venaria. La carovana si dirigerà quindi verso Torino e ascenderà la via che conduce al colle di Superga, lambendo la sovrastante Basilica contro i cui bastioni si schiantò l’aereo del Grande Torino di ritorno da Lisbona. La scelta del percorso intende commemorare il 75esimo anniversario della tragedia e risulta tanto più ovvia se si considera che Urbano Cairo è al contempo presidente del Torino e editore della Gazzetta dello Sport, il giornale che organizza la corsa rosa.

Eppure, questo pur benemerito omaggio ha rischiato di dividere la comunità dei tifosi granata, i quali nelle settimane passate avevano scritto una lettera alle varie autorità per segnalare che la chiusura delle strade per il passaggio dei «girini» avrebbe ostacolato il consueto pellegrinaggio verso il luogo del ricordo. Striscioni apparsi per la città proclamavano a chiare lettere che «salire a Superga è un nostro diritto, il Giro deve cambiare tragitto»: la questione è stata poi risolta dall’allestimento di uno speciale servizio di navetta, a spese dello stesso Cairo. Tutti quelli che vorranno, potranno quindi recarsi sul colle per perpetuare quello che è stato giustamente definito il «culto del Toro», l’insieme di narrazioni, celebrazioni, riti, miti e simboli che distinguono i supporter granata nella più sterminata congregazione dei tifosi di calcio.

L’uso di termini di impronta religiosa non deve scandalizzare. Non solo la passione calcistica è da tempo immemorabile considerata una specie di fede, ma come giustamente osservato dal saggista Stefano Radice nel volume Solo il fato li vinse, la memoria e la costruzione di senso intorno alla tragedia di Superga, fin dal principio, assunsero il tono di una «religione civile», con varia mescolanza di liturgia cristiana e liturgia laica.

Quando la notizia del disastro giunse a Roma, nel pomeriggio del 4 maggio 1949, la Camera e il Senato interruppero i lavori e tutti i parlamentari si alzarono in piedi per manifestare il loro cordoglio nei confronti della «più bella e generosa squadra d’Italia». Otto deputati presero la parola per esprimere il proprio dolore, quasi in rappresentanza dell’intero spettro costituzionale: erano tre democristiani, un comunista, un socialista, un socialdemocratico, un repubblicano e un monarchico. Per iniziativa del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, fu approvata una legge per la costituzione di un fondo risarcitorio. L’erogazione dei contributi alle famiglie dei defunti fu preceduta da un’indagine conoscitiva sullo stato economico dei congiunti, dalla quale emerse un quadro di desolante disagio soprattutto per le vedove.

Daniele Serapiglia, storico dell’Università di Lisbona, ha esaminato il significato politico, sociale e culturale della tragedia, concentrandosi sui tre giorni di lutto nazionale proclamati dal Governo e sull’immensa partecipazione popolare ed emotiva alla toccante cerimonia funebre, che diversi studiosi giudicano uno dei primi tasselli identitari nella parabola dell’Italia repubblicana. Serapiglia rinviene negli eventi e nel racconto dei giorni immediatamente successivi il tentativo dell’esecutivo degasperiano e delle gerarchie ecclesiastiche di costruire una nuova comunità nazionale cattolica, di riposizionare su basi rinnovate e unitarie un sentimento di sano patriottismo, non più compromesso con il nazionalismo aggressivo di epoca fascista.

La tesi è del tutto coerente con le scelte operate all’epoca dal Vaticano e dalla Democrazia cristiana, entrambi alla ricerca della chiave per entrare in sintonia con un popolo che aveva perduto i propri riferimenti culturali e i legami di appartenenza comunitaria. Sia la Chiesa che il partito di maggioranza relativa investirono massicciamente sulla gestione del tempo libero, come dimostrato dall’assegnazione delle deleghe in materia di spettacolo e sport al giovane Giulio Andreotti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e trait d’union fra la Dc e la Santa Sede, nonché dalla centralità attribuita agli oratori nei processi di socializzazione e aggregazione della gioventù attraverso la proiezione di film e la pratica delle più svariate attività sportive. Ancor più illustrativa di questa strategia fu l’acquisizione nel 1945 della proprietà della Gazzetta dello sport da parte della Curia milanese per il tramite di una società intermediaria.

Insieme ai trionfi oltre-confine di Bartali e Coppi e alle pluri-premiate pellicole del neo-realismo, i successi del Torino avevano permesso all’orgoglio nazionale italiano di esprimersi in forme non pericolose per il ricostituito ordine internazionale, contribuendo a far dimenticare che l’Italia era uscita sconfitta dal conflitto mondiale. Proprio la condizione di paese vinto e le lacerazioni lasciate dalla guerra civile avevano però impedito un’elaborazione pubblica delle perdite umane.

Il rito funebre del Torino, per interposto cordoglio, offrì la prima occasione di ritualizzazione condivisa dei moltissimi dolori individuali, favorita dalla diffusa equiparazione dei morti in battaglia ai calciatori «caduti» nell’adempimento del proprio dovere: fu Vittorio Pozzo, ex alpino e tecnico che aveva guidato la nazionale alla conquista della Coppa Rimet nel 1934 e nel 1938, uno dei primi a paragonare gli sfortunati assi del pallone ai soldati periti in azione. Particolarmente illuminante è in tal senso l’accostamento alla cerimonia di individuazione del milite ignoto nel 1921.

Se la scelta della salma, il trasporto di questa attraverso un intero paese in preghiera e poi la tumulazione al Vittoriano avevano costituito uno dei miti fondanti l’immaginario collettivo fascista, il funerale del Grande Torino può ben essere indicato come uno dei perni su cui si incardinò la nuova narrazione nazionale, nella quale trovarono posto anche le madri, le mogli e le figlie degli eroi scomparsi.

Sui giornali, la descrizione delle donne richiamava la figura cristiana della Mater dolorosa, emblema delle centinaia di migliaia di madri colpite tragicamente nei propri affetti. Di tutte queste madonne piangenti si omettevano i nomi, identificandole di volta in volta come «la sposa di», o «la madre di», a sottolineare la distanza dell’universo femminile dal mondo del pallone, di cui erano fruitrici indirette e accidentali, e soprattutto a ribadire la subalternità della donna all’uomo.

L’adozione di una prospettiva muliebre nel racconto facilitò altresì l’impiego di un registro narrativo di tipo nazional-popolare, suscettibile di conseguire due esiti fortemente perseguiti: da una parte, stabilire una stretta connessione fra le grandi masse popolari e i profondi significati simbolici della vicenda; dall’altro, caldeggiare una visione delle relazioni di genere di stampo assai tradizionale, sulla quale peraltro concordavano tutti i maggiori partiti dell’arco costituzionale.

Dopo una guerra che aveva suscitato un inedito attivismo pubblico e sociale delle donne – nei luoghi di lavoro al posto degli uomini partiti in divisa e come protagoniste negli anni intensi della Resistenza -, anche il disastro di Superga servì a normalizzare il quadro e a ridisegnare una società compiutamente patriarcale, in cui il ruolo femminile veniva riconfinato all’interno del focolare domestico.