C’era una volta il migrante economico africano e naturalmente c’è ancora, ma il numero di chi lascia la propria casa per sfuggire innanzitutto a conflitti e regimi persecutori è cresciuto a dismisura, negli ultimi anni.

Se è dalle guerre che si è costretti principalmente a scappare, l’Africa subsahariana ne è purtroppo infestata: Somalia, Nigeria, Congo, sono alcuni dei paesi con parti più o meno consistenti dei loro territori in preda ai combattimenti o a stragi di civili. Guerre a estensione e intensità variabili, con moventi economici, etnici, religiosi, secessionisti, con interventi dall’esterno o meno.

È comprensibile che tanta gente fugga dalla Somalia, squassata dal lontano 1991 da lotte intestine e interventi esterni che hanno peggiorato se possibile la situazione (dalle ingerenze Usa alla tendenza attuale da parte di Onu e Unione africana a mettere in campo forze composte da militari dei paesi vicini, scatenando vecchie e nuove tensioni); normale che la gente fugga dal nordest della Nigeria, dove la furia stragista di Boko Haram e un esercito corrotto e inefficiente mettono a repentaglio la vita di tante persone; come dal sud, dalla regione del Delta, sfregiato dalla presenza altamente inquinante delle compagnie petrolifere e dall’indole rapace dei governanti locali; naturale che chi può abbandoni il Kivu e la regione dei Grandi Laghi, nella Repubblica democratica del Congo, zone ostaggio di enormi interessi che contrappongono l’esercito governativo a una galassia di milizie appoggiate a vario titolo dalle nazioni vicine.
A questi paesi bisogna aggiungere Mali, Sud Sudan, Ciad, Niger, Costa d’Avorio, Repubblica centrafricana, dove la guerra è infuriata più o meno recentemente e dove malgrado attacchi, scontri armati e attentati non siano più quotidiani permangono dure condizioni di insicurezza, instabilità politica e crisi umanitaria che affliggono le popolazioni. E poi paesi in cui oppositori, dissidenti e disobbedienti vari rischiano il catalogo completo compreso tra il “semplice” arresto e l’eliminazione fisica: l’Eritrea di Isaias Afewerki, l’Etiopia di Hailemariam Desalegn, il Camerun di Paul Biya, il Gambia di Yahya Jammeh, per citare solo i casi più eclatanti.

Sulla composizione dei flussi migratori i dati in possesso del Viminale sono di difficile interpretazione, o comunque fanno capire al massimo le macrotendenze in atto in quel determinato periodo. L’anno scorso ad esempio, dopo gli eritrei, al secondo posto di questa drammatica classifica si sono piazzati i maliani, a causa del conflitto che nel nord del paese ha coinvolto esercito regolare, diverse formazioni ribelli tuareg, vari gruppi jihadisti e da ultime le truppe scelte francesi. Però i numeri sono da prendere con le molle, perché sono tanti coloro che, aspirando a raggiungere altri paesi europei preferiscono non lasciarsi identificare in un paese che considerano di transito, per non restare intrappolati nel regolamento di Dublino III.

Ma la pressione verso il Mediterraneo è solo una parte del problema. C’è un fronte sud e riguarda quanti si lasciano attrarre dal miracolo economico del Sudafrica, per vero, presunto o effimero che sia, e dalla Costituzione che il paese si è dato con la presidenza Mandela. Carta per molti versi esemplare, ma che non può di per sé offrire protezione a chi arriva dal Corno d’Africa, dal Congo, dalla Nigeria, oltre che dalla cintura degli stati confinanti, Mozambico, Zimbabwe, Malawi, Zambia, Angola. Il fiume Limpopo è sicuramente un ostacolo meno insidioso del Mediterraneo da attraversare, ma i pericoli attendono i migranti una volta arrivati nelle township, con l’ostilità spesso violenta dei residenti.