«Parlare e scrivere di agricoltura può apparire quasi una stravaganza, comunque un tema minore e collaterale» scrive Famiano Crucianelli all’inizio del suo libro Reddito di contadinanza. L’agricoltura al centro della transizione ecologica (manifestolibri 2024), terzo volume della collana Attenti ai dinosauri che coordino per la task force “Natura e Lavoro”). Ha ragione. Meglio di altri, l’immagine del problema l’ha data la regista Alice Rohrwacher con un suo bellissimo corto intitolato Omelia contadina), un lungo, silenzioso corteo rurale che, accompagnato dalle tristi note di una rituale musica funebre, va a seppellire in un prato deserto la bara di un soggetto che non è più presente nemmeno nell’immaginario della moderna umanità, il contadino.

E questo sebbene proprio il contadino sia oggi «la cruna dell’ago dove devono passare le grandi questioni della nostra epoca: il cambiamento climatico e la sicurezza alimentare».

Famiano di agricoltura, come tutti noi del manifesto delle origini sappiamo, non si era mai occupato. Come leader del sessantottino collettivo di medicina della Sapienza fu il primo dei giovani che entrò nell’appena nato gruppo in via di allestimento a fianco della rivista, e per quarant’anni è stato quel che un tempo chiamavamo «funzionario di partito» (nei primi tempi, anzi, «rivoluzionario di professione»), in questo caso del manifesto/Pdup. Fino a ricoprire, il solo fra noi, un’elevatissima carica pubblica: sottosegretario agli esteri del governo Prodi.

Quando, circa dieci anni or sono, cambiò epoca, però, si ricordò di avere avuto una madre e un padre contadini, in Molise una, a Gallese l’altro. E si immerse nelle campagne a ricercarne le tracce, fino a diventare grande esperto di agricoltura e grande animatore delle battaglie che la riguardano e di cui non si parla mai perché sebbene mangiare sia attività generalizzata nessuno si chiede da dove e come il cibo arrivi nel nostro piatto.

Da un po’ di anni è anche diventato presidente di un prezioso organismo solo recentemente (e ancora troppo scarsamente) venuto alla luce, il Bio distretto. Il suo, quello della Val Nerina e delle Forre, nell’alto Lazio, una delle più vaste aree italiane di noccioleto (e di conseguenza della Nutella), e dunque importantissimo terreno di battaglia contro uno dei grandi gruppi industriali – la Ferrero – che più di ogni altro ne ha abusato ai danni della natura. Famiano ne è stato un efficacissimo condottiero, così come per molti altri aspetti che riguardano le campagne (essersi allenato alle battaglie politiche serve, e come, anche per l’agricoltura).

IL SILENZIO con cui viene coperta l’agricoltura è stato rotto recentemente dai cortei dei trattori, che hanno però finito per confondere ulteriormente le idee, perché tutti, certo, sono costretti oggi a rivedere molti aspetti del loro modo di produrre, ma certo in forme ben diverse le une dalle altre. Resta così inquietante l’assenza di attenzione politica rispetto all’urgenza di rivedere nella sua interezza l’attuale prevalente modo di produrre, che, se non cambia, ci condurrà a una generale catastrofe che non potrà che essere accelerata e resa più drammatica per le aziende di piccole dimensioni che andrebbero invece aiutate ad affrontare seriamente la transizione anziché illuderle che i pericoli denunciati sono «ideologismo».

IL RISULTATO è che anziché avviare una transizione seria si è finito per innestare una retromarcia sulla linea che, sia pure timidamente, l’Unione europea aveva imboccato, riaprendo senza remore il passo all’avvelenamento della Terra. La questione è seria.

La sottile striscia di terra (circa 40 cm) che ricopre il suolo, e che costituisce un indispensabile serbatoio di carbonio, secondo solo a quello degli oceani, è uno stoccaggio – alimentato dai processi di fotosintesi della vegetazione terrestre – di tre miliardi di tonnellate di carbonio.

Purtroppo ormai bisogna dire «era», perché già oggi l’uso dissennato della chimica di sintesi oltre all’aumento della temperatura, stanno distruggendo la capacità del suolo di funzionare come magazzino di carbonio organico. Cessa infatti la sua capacità di assorbimento e di conseguenza aumentano paurosamente le emissioni nocive che si spargono per l’atmosfera.

Se si aspetta ancora ad intervenire il danno sarà enorme perché si calcola che ci vorranno tra i 150 e i 200 anni per tentare di recuperare, o, più verosimilmente, che non si potrà più farlo.

HO INDICATO solo alcune delle questioni su cui questo libro ci informa, ma dovrebbero bastarci per capire il crimine vero e proprio che si compie nel non affrontare con la dovuta serietà un aspetto così rilevante della questione ambientale, sino a far credere che non sia parte della transizione indispensabile.

Se non si interviene subito a bloccare le pratiche dissennate da tempo ormai introdotte dalla grande industria alimentare non ci sarà modo di fermare la catastrofe. Per questo il ritorno dei contadini nelle campagne è decisivo. Perché rendere i contadini protagonisti di una nuova «modernità», e cioè presidio in loco di un nuovo modo di concepirla, è il solo modo di salvare la nostra sopravvivenza, e non condannare l’umanità alla sorte che ebbero i dinosauri.

Nella parola contadino c’è l’eco della storia. Il passaggio del nomade al coltivatore fu, come sappiamo, un cambio epocale. Oggi occorre imboccare un altro tratto del percorso indicato allora. Il nuovo cittadino del mondo sta infatti forzatamente tornando ad essere nomade per via delle migrazioni cui è costretto, ma più che nomade ora è fuggitivo, mentre libero di esserlo, è il capitale. Che va dove vuole, dove lo conduce il maggior profitto .

QUESTO GIROVAGARE irrazionalmente per il mondo ha fatto perdere a tutti il senso del proprio lavoro, ognuno, anziché liberarsi della condizione di merce cui il capitalismo l’ha obbligato, diventa ogni giorno di più merce di scarto. Ridare senso alla funzione dello «zappatore», anche offrendogli i vantaggi di uno sviluppo tecnologico non nocivo che sembra non lo riguardi, è il compito della nuova generazione e aiutarlo in tal senso è nostro dovere.

Qualcosa si muove in questo senso. Non sono pochi i nipoti dei contadini che scapparono dalle campagne nei primi anni ’50 inseguendo un salario e il sogno di essere inclusi nella modernità proposta dal boom industriale, che oggi – per via della crisi del capitalismo (perché la crisi è del capitalismo, non la nostra) – si ritrovano con un lavoro precario, in invivibili periferie, alle prese con i costi insopportabili delle zone urbane. Per questo cominciano a riflettere e a pensare che vivere in campagna, e magari recuperare il pezzetto di terra che il nonno ha abbandonato, potrebbe essere una bella scommessa.

Sostenere questa nuova avventura significherebbe ridare alle campagne e a chi torna a lavorarle il senso, o meglio la consapevolezza, che oggi c’è una nuova modernità che va inventata. Inserire nel programma di transizione, rendendolo una strategia complessiva anziché una accozzaglia di provvedimenti privi di coerenza e di sguardo lungo, creare una Banca della Terra per rendere possibile il necessario ritorno sui campi, fornire connessioni digitali e per il movimento degli umani anche sulle colline degli Appennini del nord e del sud , far rinascere i meravigliosi borghi ora vuoti che rendono quelle montagne ancora meravigliose: quante belle rivoluzioni da fare !

Ma per avviarle occorre dar forza al soggetto. Infatti, come ha detto il papa in uno dei suoi discorsi ai giovani «Non serve una politica per i poveri, ma dei poveri». Perché per fare le cose ci vuole un soggetto che le faccia, che si faccia protagonista della battaglia per farle. A questo serve innanzitutto il «salario di contadinanza»: per mettere i tanti giovani che vorrebbero farlo, di avviare la rivoluzione.