Siamo nella parte settentrionale del Mali, una zona infiltrata da milizie jihadiste che arrivano dalla Libia e dintorni. Un gruppo di uomini armati ha preso il controllo di un sobborgo nel deserto nei pressi di Timbuctu. In gran parte stranieri, sono armati di semiautomatiche, parlano arabo e francese invece del dialetto Tuareg o dell’inglese e hanno imposto la sharia alla popolazione locale – niente musica, sigarette, calcio o divertimenti di qualsiasi tipo; le donne devono mantenere il capo e le mani coperte. Anche ridere è pericoloso. Gli adulteri saranno puniti con la lapidazione.

Ispirato al video (diffuso online dagli stessi giustizieri) dell’esecuzione di un uomo e una donna, uccisi a sassate perché avevano avuto figli senza essere sposati, nel villaggio di Aguelhok, nell’estate del 2012, Timbuktu, è il nuovo film di Abderhamane Sissako. Forte di una cordata che include i maggiori produttori di cinema d’autore francese (ARTE, Canal +, Le Pacte..) e il laboratorio del Doha Film Institute, è il quarto lungometraggio del regista mauritano del bellissimo Bamako. Arrivato negli Stati uniti (la prima era stata a Cannes, la primavera scorsa) proprio mentre le notizie sull’Isis in Siria e Iraq si fanno ogni giorno più grondanti di sangue, il film è stato incondizionatamente esaltato dalla critica e ha trovato un pubblico senza precedenti per il lavoro di Sissako. Sorpresa dell’ultimo momento, è stato anche nominato agli Oscar per il miglior film straniero – tra i concorrenti, è non solo il più bello ma il più urgente, quello per cui «tenere», perché quello che più resiste ai parametri del «cinema d’esportazione» standard che si fa oggi.

Come Bamako, Timbuku è costruito secondo una struttura corale, anche se meno libera, più simmetrica, che trova il suo esile perno narrativo nella storia di Kidane (Ibrahim Ahmed dit Pinto), che vive in una tenda a breve distanza dal villaggio, con sua moglie Satima (Toulou Kiki), sua figlia Toya (Layla Walet Mohamed) e il giovane pastore Issan (Mehdi AG Mohamed). In seguito all’arrivo dei jihadisti, quasi tutti i vicini di Kidane se ne sono andati, ma lui rifiuta di muoversi – anche se una jeep di miliziani si materializza spesso vicino alla tenda quando lui non c’è e Satima gli dice che sta cominciando ad avere paura.

La loro è una vita di contemplazione, «antica», ma la mucca favorita si chiama GPS, Toya ha un telefonino (anche se la ricezione non è granché), in paese si parla di Zidane, e tra i miliziani c’è un ex rapper. Sotto lo sguardo severo, i pattugliamenti regolari e le perquisizioni sommarie dei jihadisti, Sissako accumula dettagli di contraddizioni profonde e i sintomi dell’inevitabile tragedia finale. Una dolce melodia si sparge per le strade nella notte, ma poi una ragazza viene frustata a sangue perché ha osato cantare. Un’altra chiede che le vengano tagliate le mani piuttosto di mettersi i guanti…Pastori e pescatori non vanno più d’accordo. Zadou – che ha uno sfarzoso abito con strascico turchese e parla con i galli – è così pazza che nemmeno i miliziani osano toccarla.

Oppressori e oppressi sono separati anche dalla lingua – si parlano spesso attraverso traduttori. E, come in Bamako, riti istituzionali come il processo o un’esecuzione diventano segni non di ordine ma dell’arbitrarietà totale, oltre che dell’ingiustizia, della situazione. «Aguelhok non è né Damasco né Teheran. Per quello nessuno ne parla», dice Sissako nelle note di produzione del film, lamentando l’indifferenza quasi totale dei media nei confronti di quello che è successo in Mali, che poi sta diventando una realtà sempre più diffusa nei paesi dell’Africa. Filtrato dall’occhio di Sofiane El Fani (già direttore della fotografia di La vie d’Adele), Timbuktu ha una qualità pittorica sincopata, eccentrica, quasi austera.