Non perché ManiFashion sia Cassandra, ma gli inviti al cambiamento del sistema moda cominciano a dare i primi risultati. Ieri Burberry ha annunciato che dal prossimo settembre eliminerà le sfilate stagionali uomo e donna e presenterà soltanto due volte all’anno delle collezioni che saranno in vendita nei negozi e online a partire dal giorno dopo. «Il nuovo formato e il nuovo calendario, immediati e senza stagionalità, sono stati studiati pensando a un pubblico globale», comunica Christopher Bailey, Ceo e Direttore creativo.
Del resto, il fashion world è in subbuglio e tutto fa supporre che anche gli ultimi cambiamenti alla guida delle direzioni creative siano il prologo di un terremoto annunciato. Una frenesia che sottolinea l’urgenza di modificare un sistema che continua a essere alimentato con accanimento terapeutico.

In questa settimana, sono arrivate le comunicazione dell’uscita dalla direzione creativa di tre importantissimi marchi della moda maschile. In ordine di tempo: dopo cinque anni, Alessandro Sartori lascia Berluti di proprietà del gruppo Lvmh; dopo tre anni, Brioni, marchio storico italiano di proprietà del gruppo Kering si separa da Brendan Mullane.

E dal giorno prima, i rumors davano per certa la separazione di Stefano Pilati da Ermenegildo Zegna, dove era arrivato tre anni fa per creare una linea Couture per l’uomo e rilanciare il marchio femminile Agnona, che però aveva già lasciato nello scorso luglio. La conferma delle dimissioni di Pilati è arrivata due giorni dopo.
In questa cronaca si sono inseriti gossip, congetture e dietrologie, e su tutte aleggia il fantasma delle supposte, eventuali, temute dimissioni di Hedi Slimane da Saint Laurent che alcuni danno per certo sostituito da Antony Vaccarello. E Slimane lascerebbe Saint Laurent per andare a occupare la direzione creativa di Dior, dove lo stilista manca da ottobre, quando Raf Simons ha lasciato dichiarando di non essere più interessato a venire stritolato da una macchina creativa troppo veloce. Per non lasciare nulla di intentato, si dà anche per certo l’arrivo di Sartori da Zegna, quello di Mullane da Berluti e quello di Pilati da Lanvin, il marchio lo scorso ottobre ha licenziato Alber Elbaz.

Un balletto poco edificante per un intero sistema industriale che fattura miliardi di euro che sembra la trama di una telenovela un po’ complicata e non una strategia di cambiamento sostanziale del sistema moda, che è quella che realmente servirebbe.
Quello che appare sempre più evidente, invece, è che i marchi di proprietà dei grandi gruppi finanziari non hanno più bisogno di stilisti vedette che da una parte fagocitano lo storico del marchio e dall’altro sono fagocitati dal marchio che indebolisce la loro visione creativa a favore delle strategie commerciali, come si vede nel lavoro di Nicolas Ghesquière da Louis Vuitton.

Siccome il vero cambiamento arriverà quando la moda ritornerà a chiamare i marchi con i nomi degli stilisti che li disegnano, mi permetterei di suggerire a tutti i creativi, attualmente impiegati a perpetuare nomi di onorevoli colleghi scomparsi da molti decenni, di investire i loro lauti guadagni (per alcuni si parla di compensi da 12 milioni di euro all’anno, cioè di un milione al mese) e tentare quello che sembra più logico: proporre con il loro nome quella creatività che le aziende dove lavorano, a loro dire, sacrificano.

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