C’era una volta la poesia dadaista Toto-vaca che Tristan Tzara si divertì a declamare, ricreando in proprio le assonanze maori. Poi arrivò Joan Mirò ad illustrare quei suoni astrusi. E il cerchio non si chiuse lì: quasi cent’anni dopo, Akram Khan e Israel Galván hanno deciso di riportarla in vita quella poesia giocosa piena di allitterazioni sconosciute. Semplicemente ballandola e prendendola come spunto. Reinventando un ritmo corporeo da sovrapporre a quel principio solo fonetico. Passi al posto di parole, questa volta ispirati ad animali sacri.
Torobaka
, cui Romaeuropa festival affida l’apertura della 29/ma edizione (da stasera e fino al 26, all’Auditorium della Conciliazione), è la nuova creaione coreografica che vede la collaborazione, inedita, di due icone della danza contemporanea. Sul palco romano si intrecceranno le figure del solitario flamenco di Galván con le movenze narranti storie di dei ed eroi del kathak reinterpretato da Khan. Due mondi che si incontrano e scardinano lo scrigno dove sono riposti i loro segreti (le radici, la tradizione) per permettere agli spettatori più giovani di dare una sbirciatina, attraverso una serie di workshop che accompagneranno il «pezzo».
Una componente centrale del dialogo con il pubblico è la musica dal vivo – eseguita da David, Azurza, Bobote, Christine Leboutte, Manjunath, Bernhard Schimpelsberger – che, nella sua miscela, coinvolgerà anche i due danzatori sulla scena.
La nuova parola coniata Torobaka riconduce agli animali sacri e simbolici di due culture (il toro per la Spagna e la vacca per l’India) e la fusione dei due mondi rotola fra i piedi degli artisti. Dovranno «raccontare» le misteriose assonanze e le trasformazioni in corso. «Galván mi ha aperto gli occhi sulle possibilità infinite del flamenco, come si può decostruire, ricrearlo per dar vita a nuove narrazioni», dice Akram Khan, il danzatore inglese con origini bengalesi che a tredici anni era già nel cast del Mahabharata di Peter Brook.
«Ci sono dei veleni che hanno la capacità di guarire… Il kathak è uno di questi, io ormai ce l’ho dentro la mia pelle», incalza Galván, riconoscendo a Khan una proprietà demiurgica. Il set è l’arena delle corride e le strade dove si aggirano le mucche intoccabili. Difficile schivare tutti questi segni «celesti», meglio impregnarli della terra, mimando fughe improvvise, passi antichi e repentini confronti serrati sul palco.