«Un lungo viaggio verso la maturità», così il regista taiwanese Hou Hsiao Hsien ha descritto il percorso che l’ha portato – dagli anni di gioventù, quando divorava i romanzi wuxia e il cinema fatto a Hong Kong da maghi del genere come King Hu- a dirigere solo oggi un film di arti marziali, The Assassin. Il suo nuovo lavoro è infatti una versione personalissima del tradizionale cappa e spada cinese, con cui si sono misurati anche registi contemporanei non «di genere», come Ang Lee (Crouching Tiger, Hidden Dragon) e Wong Kar-Wai (The Grandmaster).

Intanto il formato – non l’anamorfico abitualmente usato per dare più spazio ai combattimenti, ma un’aspect ratio molto più stretta, quasi quadrata, che privilegia le linee verticali. Assenti in questo film magnifico (anche quando è indecifrabile) sono i classici guerrieri volanti e il montaggio usato per dilatare l’azione. Con The Assassin, Hou Hsiao Hsien ha infatti addomesticato il wuxia alla sua cifra stilistica, fatta di lunghe inquadrature ininterrotte, di ellissi narrative, parca nei primi piani a cui preferisce l’osservazione a distanza.

Più vicino ai dilemmi filosofici dei samurai di Akira Kurosawa, che ai monaci aerodinamici di King Hu, The Assassin è un film di bellezza visiva straordinaria (la fotografia è del suo abituale collaboratore, Mark Lee Ping Bing), che obbliga lo spettatore a resettare le sue aspettative, non solo rispetto al movimento interno del film ma anche, e soprattutto, ai suoi accenti.

Tratto da un racconto che s’intitola Nie Yinniang, e ambientato nel nono secolo, al crepuscolo della Dinastia Tang, sullo sfondo del braccio di ferro tra l’Impero e il potere crescente di alcune province comandate da militari, è la storia di Yinniang, l’assassina del titolo, introdotta da un prologo in bianco e nero che presto sboccia in un sontuoso bouquet dominato da lacche rosse e nere e dorate, filtrate da strati infiniti di morbide stoffe preziose – la corte: un labirinto di sete dietro alle cui trasparenze si intravedono complotti, menzogne, i governanti e le loro concubine, un mago con i lunghi capelli e barba bianchi, e in cui si staglia, improvvisamente, la silhouette nera di un killer.

Esiliata dalla famiglia quando era bambina per problemi di successione, Yinniang (Shu Qi, l’apparizione folgorante di Millenium Mambo è cresciuta nelle montagne con una suora che l’ha educata all’arte di uccidere. È un’arte che pratica con efficacia, eleganza ed economia perfette. Eccetto quando decide di non ubbidire agli ordini – perché Yinniang è un killer di professione che rivendica la possibilità di pensare, avere dei sentimenti, e di scegliere.                  

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Contrariata perché la sua discepola non ha portato a termine un assignement, la suora decide di metterla ulteriormente alla prova inviandola nella regione dove è nata, con l’obbiettivo di uccidere un cugino al quale era stata promessa sposa da piccola, e che adesso governa la provincia militare più potente del Nord. Filiforme, androgina, i capelli lunghissimi che si fondono con il nero profondo degli abiti, Yinniang appare/scompare alla corte come un fantasma, un angelo della morte.

Un angelo/killer che non ha paura di combattere dal sola intere bande di guerrieri e di ammazzare anche nei modi più trucidi – ma che ha delle rules of engagement, precise, e solo sue. Di infrangerle non se ne parla, anche se questo significa dover rinunciare al rango, ad appartenere a quell’élite rarefatta in cima alla montagna, e imboccare invece, al crepuscolo, giù a valle, un sentiero verso l’orizzonte insieme a un gruppo di contadini.