La scala è da uno a dieci. Ma è attendibile. La concentrazione di potere mediatico che sta cercando di realizzare il gruppo guidato da Antonio Angelucci è paragonabile a quella già compiuta da Vincent Bolloré in Francia.

Il primo, Angelucci, è un imprenditore della sanità privata, deputato della Lega, proprietario del Il Giornale, Libero, il Tempo e di altre testate. Oggi sembra intenzionato ad acquisire l’agenzia di stampa Agi. Il secondo, Bolloré, è un ereditiere bretone, controllore di Vivendi, già nel Cda di Mediobanca. Ha importato il modello americano della Fox news in Francia con CNews che fa parte di Canal Plus. Vicino ad ambienti cattolici tradizionalisti, Bolloré è il megafono delle idee dell’estrema destra. I suoi media difendono la proprietà, i confini e il capitale e sono contro immigrati, cittadini di seconda e terza generazione. E poi legge e ordine, fake news e complotti. È la cornice del trumpismo mondiale.

L’acquisizione dell’Agi, attualmente di proprietà dell’Eni, da parte del gruppo Angelucci potrebbe dare ulteriore coerenza a un progetto politico-culturale che si inscrive nella stessa scia. Così interagirebbero i quotidiani che coltivano la stessa mitografia reazionaria con un’agenzia di stampa, cioè una delle «fonti primarie» alle quali gli altri media attingono per comporre l’agenda.

Non è un disegno da poco. L’Agi è la seconda agenzia del nostro paese dopo l’Ansa e conta su un contributo pubblico di 3,1 milioni di euro. Mai si era visto, fino ad oggi, un editore «classico» di quotidiani, da più di un quindicennio impegnato in questo mercato, intentare una simile operazione. In Italia abbiamo sperimentato un modello diverso: un editore come Berlusconi ha acquistato quotidiani (Il Giornale) forte del suo impero televisivo. E li ha usati per creare la propria realtà parallela facendo politica in prima persona.

Nell’orbita del berlusconismo, anche mediatico, si è formato politicamente Angelucci. È in parlamento dal 2008, di recente ha confermato un record di assenze vicino al 100% delle sedute. Il suo potere di influenza è diventato notevole. Basta seguirne le tracce dalle indiscrezioni e dai retroscena. Solo nell’ultimo anno l’imprenditore abruzzese ha fatto parlare di sé per l’acquisizione di Repubblica o di Radio Capital, per esempio.

Sempre che vada in porto l’operazione-Agi, il risultato potrebbe essere quello di condizionare la produzione delle altre fonti primarie al fine di uniformarla tendenzialmente all’universo di Meloni-news. Si formerebbe un circuito autosufficiente: produrre narrazioni più che notizie, lanciarle nella fasciosfera, farle diventare «senso comune» con la sponda del governo. È un’idea di «egemonia», ma senza lotta di classe.

Ieri alla Camera, nel corso di un question time con un pilatesco ministro dell’economia Giorgetti, Giuseppe Provenzano (Pd) ha evidenziato il «conflitto di interessi» di un controllore (Giorgetti è vicesegretario della Lega) che non avrebbe nulla da obiettare sulla cessione dell’Agi a un deputato del proprio gruppo parlamentare (Angelucci). E ha evocato uno scenario da «oligarchi».

Restando all’Unione Europea, l’esempio richiama l’Ungheria dove il governo Orban ha permesso a uomini vicini al presidente di controllare il 90% dei media. Circa 500 portali online, giornali locali, radio e canali televisivi, sono stati raggruppati in una fondazione il cui scopo sarebbe quello di fare propaganda al governo.

Il paragone non è forse calzante per l’Italia. Qui il melonismo informativo è protagonista in Rai per lo spoil system e su Mediaset per dovere di coalizione. E il pluralismo è un fantasma evocato a maggioranze alterne.

L’originalità del modello qui prospettato è data dalla potenza finanziaria prodotta anche attraverso la sanità privata e investita nel capitalismo dei media. Questo non è un problema per chi giustamente è preoccupato per la tenuta della sanità pubblica?