La recente pubblicazione di alcuni documenti sui negoziati in corso sul Ttip effettuata da Greenpeace ha riportato sui media il trattato di libero commercio tra Usa ed Europa. Tranne in alcuni momenti – in Italia solo quando sembra poter diventare una discussione che riporta al cortile di casa – tutto quanto sta accadendo intorno al Ttip non trova granché spazio nella discussione pubblica e politica.

L’argomento, in effetti, non è dei più semplici perché la volontà dei negoziatori (in primo luogo gli statunitensi) è quella di regolare il commercio del mondo occidentale all’interno di standard che da quel momento in poi saranno da considerarsi universali. O almeno in grado di regolare i rapporti tra quasi tutti gli Stati tranne, dicono i maligni, Cina e Russia, escluse, guarda il caso, da tutto questo movimento internazionale desideroso di «liberalizzazioni». Ci sono molti aspetti, inoltre, da cui discendono dei «no» talmente forti al trattato da aver coinvolto centinaia di associazioni e organizzazioni in mobilitazioni che trovano sfogo nelle piazze di molti paesi.

In Italia sabato 7 maggio ci sarà una manifestazione nazionale e per capire tutte le ragioni dei «no» e i motivi delle campagna di «Stop Ttip» sabato, in occasione delle proteste, sul manifesto ci sarà un inserto ad hoc di otto pagine. Nel frattempo è bene segnalare la letteratura che esiste circa le argomentazioni contro «i metodi» con i quali il trattato si sta portando avanti, oltre che contro il trattato stesso (se mai arriverà a compimento). In Ttip – L’accordo di libero scambio transatlantico, quando lo conosci lo eviti (Derive e Approdi, 13 euro), Paolo Ferrero, Elena Mazzoni e Monica Di Sisto, affrontano tutto quanto riguarda le ricadute economiche, sociali e politiche del Ttip. Partendo proprio dalla domanda di partenza: qual è l’obiettivo dichiarato del Ttip?

Gli autori del volume spiegano che il fine è «abbattere le differenze di normative tra le parti, differenze che sono considerate barriere non tariffarie al commercio e agli investimenti: l’idea chiave è che, riducendo queste differenze di regolamentazione, il commercio e gli investimenti aumenteranno con conseguente crescita economica». La prima constatazione è la convenienza di un percorso simile: a chi porterà dei vantaggi? «Un percorso simile potrebbe sfociare in un’enorme ingerenza sulla capacità degli Stati di legiferare nell’interesse dei cittadini, perché il Trattato crea delle costrizioni internazionali che, in modo evidente, vanno a influire sull’autonomia normativa delle parti».

Su questo la posizione dell’Europa – che in realtà qualche dubbio lo ha – non ha alcun tentennamento, come dimostrato dalla Commissaria al Commercio Ue, Cecilia Malmstrom quando ha specificato che «i due contraenti si impegnano, con l’accordo in fase di negoziazione, a eliminare le normative che impediscono al mercato transatlantico di essere armonioso».

Al di là dell’ironia dell’utilizzo della parola «armonia» (usata da Pechino per indicare la necessità di una società sottoposta al volere del Partito comunista), le parole di Malmostrom indicano una chiara volontà dell’Ue di appoggiare i piani tanto degli Usa quanto delle multinazionali, in favore dell’abbassamento di standard di qualità che finiscono poi per ripercuotersi in molti settori delle nostre vite future. In ballo non c’è tanto e solo la sovranità di uno stato, quanto le conquiste fatte nel corso del tempo in tema di diritti ambientali, del lavoro, dell’alimentazione. E soprattutto c’è la volontà di negoziare – come dimostrato dai leaks resi pubblici da Greenpeace – senza che la società civile sappia di cosa si sta discutendo, salvo poi assistere alla farsa dell’eventuale ratifica dei parlamenti nazionali completamente esclusi del resto dalle trattative. Gli autori del volume, in ogni caso, vanno oltre.

Mettiamo, sembrano dire, che tutto questo insieme di elementi generali (compreso quello che riguarda la risoluzione delle controversie tra Stati e aziende) non sia sufficiente per un «no» energico al progetto di Ttip, vediamo allora cosa succede nell’ambito numerico, economico, puramente di guadagno. Se il Ttip, ad esempio, portasse all’azzeramento «delle tariffe doganali e dei contingenti tariffari, le esportazioni agroalimentari degli Usa verso l’Ue aumenterebbero di 5,5 miliardi di dollari rispetto all’anno di riferimento (2011), mentre i livelli di esportazioni europee verso gli Stati uniti crescerebbero di 0,8 miliardi».

Questo accade perché l’Ue «attualmente impone barriere tariffarie più alte sulle importazioni di quanto non facciano gli Usa», ma se «oltre ai dazi, si rimuovono dal commercio transatlantico alcune specifiche misure non tariffarie, la situazione è destinata a cambiare di molto».

Ovvero, carne, colture, frutta e verdura: sono questi «gli ambiti più interessati da misure non tariffarie restrittive, e rimuoverle si tradurrebbe in un aumento delle esportazioni degli Usa verso l’Europa di ulteriori 4,1 miliardi». La crescita di esportazioni complessive degli Usa diventerebbero quindi di quasi 10 miliardi di dollari. Per l’Europa la rimozione delle misure non tariffarie si tradurrebbe in un guadagno di 1,2 miliardi. E al di là di questo: chi quantificherà i danni per la salute?