Chiara Dynys, da quasi trent’anni, si è affermata come artista capace di imporre il suo punto di vista attraverso una pluralità di linguaggi. La sua produzione, ormai ben radicata in Italia, lo è anche di più in Germania e in Svizzera. Di recente è stato finalmente pubblicato un volume complessivo che ne ricostruisce l’opera con grande completezza e una accuratezza editoriale ormai rare (Chiara Dynys, Allemandi, con saggi di Andreas Bettin, Giorgio Verzotti, Daniela Ferrari).

Nel libro, sono riprodotti i lavori degli anni 90 dove Dynys, che si sottraeva con intelligenza alla discussione moderno/postmoderno, cominciava a dominare lo spazio con opere lineari che alludevano alla creazione di mondi armoniosi, nonostante le pressioni esterne (Il cerchio dei re, Pio Albergo Trivulzio, 2002), per poi farci entrare attraverso fenditure misteriose in altri universi, chiusi in una teca (Deframmentazioni, 2002). Se si guarda alle opere pittoriche più recenti, sono i Poisoned flowers a catturare l’attenzione: qui una superficie monocroma rivela, con lo spostamento fisico dell’osservatore, fiori che richiamano paesaggi. Tutti questi lavori, come i misteriosi occhi che ci osservano ma si fanno anche guardare (Glances, 1999) sono improntati a una evidente dimensione concettuale ma, al tempo stesso, richiedono una padronanza dei materiali e delle tecniche che ne permettono la realizzazione. È questo un aspetto importante per Chiara Dynys: l’artista ha un rapporto costante con quel mondo di artigiani, consapevoli del loro ruolo, che rendono possibili le installazioni e la fruizione di tante opere.

Negli ultimi anni Dynys, misurandosi anche con video e film, ha intrapreso un lavoro di ricerca sulla realtà sociale ed estetica del Medio Oriente. Un interesse che non scende a compromessi con l’«orientalismo» e con il terzomondismo che ne è il volto progressista, e presente già dai tempi della installazione Peshavar, in cui la voce che recita Samuel Beckett si contrappone ai silenzi delle donne che immaginiamo prigioniere, chiuse nei burqa che oscillano accanto alle bandiere, travolte da guerre e crisi. Nei film Life, Maybe, (2009) e, soprattutto, Da Palmira ad Aleppo non si vola (2009) girato in Siria quando il regime di Assad cominciava a fare i conti con le rivolte che pochi anni dopo avrebbero aperto le contradditorie speranze delle «primavere arabe», giovani corrono, si spostano, attraversano paesaggi scardinando la fissità con un movimento che condivide il dinamismo e le domande che si pone l’artista. In Pane al mondo – realizzato nel contesto delle preoccupazioni che avrebbero dovuto ispirare l’Expo – Dynys ripropone infine la fisicità della scultura classica… Una ricerca la sua che, da questi bilanci critici, si apre a nuove sperimentazioni e sorprese.