Carl Schmitt era una sorta di «reazionario giacobino»: un critico radicale della modernità, ma dall’interno, tendendone all’estremo i concetti. I legittimismi codini gli erano estranei: quando una credenza politica è caduta, esaurita, è inutile e persino ridicolo pretendere di tenerla in piedi forzosamente. Questa impostazione gli ha permesso di cogliere tanto le logiche e i rischi della politica «assoluta» quanto il nesso – che ci riguarda potentemente, nel mondo globale senza nomos – tra spoliticizzazione, deterritorializzazione e tecnocrazia. Per questo Schmitt resta un pensatore decisivo, anche e per certi versi soprattutto per la sinistra (perlomeno per una sinistra che non scambi la critica sociale con la retorica moraleggiante).
COME METTE IN LUCE efficacemente Jean-François Kervégan in Che fare di Carl Schmitt? (pp. 254, euro 24, tradotto da F. Mancuso per Laterza), al di là degli assunti ideologici, delle scelte opportuniste e censurabili, delle opzioni concrete di politica del diritto, assumendo teoricamente il rischio del «politico», da «teologo della scienza giuridica», Schmitt ha colto la costitutiva politicità del diritto e presentito le conseguenze del suo sradicamento. Il conflitto è fonte di energia politica, e allo stesso tempo, soprattutto se estremo, il «problema» che la decisione deve contenere. Se si dimentica questa «ipoteca», magari pensando di liberarsi dal potere, ci si consegna a forme di dominio e di ostilità «totalizzanti», che tali rimangono anche quando si presentano con un volto fintamente mite – quello dell’empowerment e della governance –, mirando a produrre docili soggettivazioni neoliberali: non a caso queste «maschere» che tanti hanno sedotto stanno cadendo, per quanto fatichi a manifestarsi una forza antagonista strutturata, portatrice di un paradigma alternativo (semmai, le fratture sociali indotte dalla globalizzazione sfociano in una contrapposizione giocata sul piano antioligarchico e identitario).

IL PARADIGMA NEOLIBERALE pretenderebbe di conseguire la compiuta e definitiva neutralizzazione tanto del conflitto, quanto della necessità della decisione costituente. Naturalmente, si tratta di un’illusione. Peggio, di un inganno ideologico, che veicolando una teologia antipolitica mira ad essere performativo, a produrre il proprio mondo come se fosse «naturale» (siamo in presenza, con il neoliberalismo, di una vera e propria metafisica inconscia della rinaturalizzazione). Ma qualcosa non torna: in questo pseudo-ordine globale presuntamente spontaneistico e pacificato guarda caso proliferano muri, stati di emergenza (più o meno quotidiani) e guerre-non guerre feroci. Bisogna ammettere che Schmitt aveva ragione, quando prevedeva un’intensificazione inusitata della violenza, e del caos, una volta che fosse abbandonata qualsiasi prospettiva di legittimità «katéchontica», cioè in grado di frenare ostilità e potenze «indirette», di cui fanno parte tanto i poteri economici sregolati quanto i fondamentalismi religiosi. E quando ci invitava a ripensare a un nuovo nomos radicato e multipolare.

Il problema è che il globalismo postmoderno è speculare all’irenismo «progressista» della cosmopoli (al di là delle buone intenzioni normativiste di quest’ultimo). Entrambi sono catturati dalla logica neoliberale. Per evitare la spoliticizzazione che ne deriva e rispondere alla sfida del residuo ineliminabile della violenza occorre riconoscere l’impossibilità di fuoriuscire integralmente dalla logica (teologico-politica) della rappresentazione. Anche un rilancio democratico dal basso, partecipativo, per essere efficace, deve tenerne conto.

Certo, prendersela con la crisi del «rappresentato», sottovalutando gli effetti della crisi del «rappresentante», rischia di costituire un alibi, ed è perdente ai fini di una politica «diversa». Siamo nell’immanenza sociale: questo è un punto da riconoscere e assumere. Ma siamo sicuri che essa non si sia costituita, e necessiti tutt’ora, tanto più in una prospettiva trasformatrice che assuma coerentemente i bisogni «popolari» di chi oggi patisce deflazione salariale, disoccupazione e demolizione dei diritti sociali, di una qualche forma di trascendenza collettiva, di rappresentazione politico-simbolica?

IL «POTERE COSTITUENTE» non permane mai allo stato puro e continuo, ma si dà sempre nella forma della rappresentazione, trascendendo dall’interno l’immanenza.

Non so se sia di nuovo il tempo del potere costituente, che peraltro è sempre un evento imprevedibile (e rischioso). Ma certo la generazione di un’eccedenza di energia politica, in grado di contrastare quell’uniformazione coatta al neoliberismo in nome della quale non si esita a liquidare il costituzionalismo democratico e sociale, è la sfida intensamente politica che dobbiamo aver il coraggio di raccogliere. A tal fine, le categorie di Schmitt – contro Schmitt – ci servono ancora.