In quest’Europa rovesciata, dove gli interessi dei cittadini sono sempre più subordinati a quelli degli azionisti, dove i consigli di amministrazione contano più della collettività e l’interesse privato viene regolarmente anteposto al benessere pubblico, il ripercorrere le esatte direttrici di sviluppo della deriva neoliberista non è mai faccenda immediata. Tuttavia, la controffensiva ideologica che ha visto il tornaconto personale sostituirsi in toto come ratio fondativa a tutte le priorità d’ispirazione sociale che informavano le politiche di welfare state dal secondo dopoguerra a oggi ha avuto specifici centri d’irradiazione, identificabili in certi paesi più che in altri.
Uno di questi è senz’altro la Gran Bretagna, assurta ormai al ruolo di avanguardia dell’aziendalizzazione selvaggia della cosa pubblica, ruolo che sta svolgendo con un’irremovibilità che rasenta la spietatezza, indipendentemente da chi sia al governo. E più che mai in un settore come quello dell’istruzione universitaria che, un po’ come la metropolitana di Londra, è ormai tra le più costose al mondo.

La terra di Oxbridge
Se da un certo punto di vista c’è poco da meravigliarsi – si tratta pur sempre della patria di Adam Smith – la virulenza del fenomeno non può non colpire. Negli ultimi trent’anni, infatti, da invisibile che era, la mano del mercato di smithiana memoria si è fatta del tutto invivibile; trent’anni in cui il sistema dell’istruzione superiore è mutato più che in tutta la sua storia. Dalla seconda guerra mondiale in poi, questo era regolato secondo il principio del servizio pubblico: era gratuito, o comunque a basso costo, per tutti coloro che avevano dimostrato qualità e determinazione a continuare gli studi. Nonostante ciò, nella terra di Oxbridge – che vede la maggior parte degli occupanti dei posti chiave nell’amministrazione, nei media e nell’accademia del paese provenire tuttora in gran parte dalle due celeberrime università – la mobilità sociale è stata al di sotto delle aspettative. O meglio, perfettamente conforme a quelle di chi vede la mobilità sociale come una pericolosa insidia del privilegio di nascita, fattore non trascurabile in un paese in gran parte ancora sostanzialmente monarchico. Tanto che l’istruzione universitaria dagli anni Sessanta in poi sarebbe diventata una sorta di servizio pubblico riservato alle classi medio-alte, in grado di pagare cifre onerose per le scuole medie superiori dei figli, in modo che questi potessero aumentare le possibilità di accedere poi all’università gratuita.

Il punto di non ritorno si è verificato nei primi anni Novanta, quando lo spostamento di paradigma verso una sempre maggiore attenzione alle esigenze del mercato, forte anche dell’esplosione d’iscritti verificatasi nello stesso periodo, vide una sostanziale sinergia – se non identità – di vedute tra governi conservatori e laburisti, instauratasi sin dall’insediamento del primo governo Thatcher alla fine degli anni Settanta.

Tale spostamento di paradigma, dopo essere stato largamente sperimentato dai paesi dell’area angloliberale – cui il sistema universitario statunitense serve ovviamente da perenne campo gravitazionale – si sarebbe poi diffuso in quelli dell’ex blocco sovietico, investiti dal ciclone neoliberista in ogni anfratto economico e sociale. Ma l’autentica virata pro-mercato è stato l’Education Reform Act del 1988. In esso tramontava per sempre l’idea che l’università fosse un servizio sostenuto economicamente dallo stato e che, grazie a questo, potesse autonomamente stabilire quali servizi fornire ai suoi studenti, per lasciare spazio a una concezione mutuata di sana pianta dall’economia d’impresa: quella dell’università-azienda, che vende ai suoi clienti, e allo stato stesso, servizi sulla base del rapporto fra domanda e offerta.

All’inizio, si era optato per l’adozione di un fattore mitigante, come nell’economia mista di stampo keynesiano: lo stato manteneva il controllo dell’erogazione delle risorse finanziarie, che allocava sulla base della contingenza del mercato.
In questa fase le università britanniche, il cui pedigree didattico e scientifico è fra i più elevati al mondo, facevano pagare onerose tasse universitarie soltanto ai facoltosi allievi stranieri in grado di pagarle. Ben presto però, siamo nel 1998, il governo di Tony Blair introduce le tuition fees di circa tremilacinquecento sterline annue per tutti gli studenti nazionali ed europei, pur ancora mantenendo un certo livello di finanziamento pubblico. Infine, lo strappo del 2010, con l’annuncio che l’onere economico della laurea sarà spostato di peso e brutalmente sulle spalle degli studenti, e l’innesco di una sorda spirale che vede il diritto allo studio mutarsi pienamente e inesorabilmente in privilegio, in linea con le analoghe trasformazioni che ormai interessano la sfera ormai ex-pubblica nel suo complesso.Basti pensare che il costo – definirlo esorbitante è un eufemismo – raggiunto dalle tasse universitarie sotto l’attuale governo di coalizione Tory-Libdem è di novemila sterline annue (circa dodicimila euro).

Le coorti tecnocratiche
Con questo spaventoso aumento, entrato in vigore dal 2012, il passaggio a un sistema basato esclusivamente sul mercato è ormai compiuto. Lo stato continua a sovvenzionare le istituzioni universitarie soltanto per meno della metà del loro fabbisogno, oltre a fornire agli studenti prestiti restituibili una volta che questi avranno raggiunto professioni sufficientemente retribuite. Trasformandoli così in debitori ancora prima di cominciare una qualsivoglia carriera professionale.

In nessun paese occidentale è mai stato introdotto un costo dell’istruzione superiore di simili proporzioni. È la riforma più ultraliberista e radicale che si conosca. L’aumento è stato introdotto in mezzo alla raffica di tagli al welfare state e a tutto il settore pubblico che ha contraddistinto la politica economica di questo governo, e sull’esito della quale si giocheranno le prossime, imminenti elezioni. La crisi finanziaria del 2008, dalla quale Cameron e Osborne millantano ora di aver salvato il paese, ha fornito la pezza d’appoggio della contingenza storica. Già nel 2010 l’annuncio del provvedimento aveva scatenato violente proteste di piazza e le agitazioni continuano, come dimostra la recente occupazione studentesca della London School of Economics.
La rabbia è del tutto giustificata, soprattutto quando si pensi che chi ha legiferato in questo senso l’ha fatto grazie a carriere universitarie all’epoca ancora sovvenzionate pubblicamente. Elemento, questo, che aggiunge all’equazione anche la variabile di una netta rottura generazionale. La matrice di classe di tutta quest’operazione emerge poi in tutta la sua evidenza quando si pensi che l’autore del rapporto sul finanziamento dell’istruzione superiore commissionato dai laburisti prima che Cameron & Co vincessero le elezioni cinque anni fa era John (Lord) Browne, ex amministratore delegato della British Petroleum.

La maniera ormai sfacciata con cui sempre più spesso si affida a pronunciamenti di manager privati la sorte di un settore pubblico – e dunque ad essi alieno per forma e sostanza – ben descrive il contesto ideologico nel quale si muovono le coorti tecnocratiche attualmente al potere ovunque in Europa.

Ora il Labour di Ed Miliband ed Ed Balls, il ministro ombra delle finanze, ha impostato sul diffuso malcontento causato da un provvedimento che sforna laureati con la schiena già spezzata dal debito (il 45% non riesce a restituire i denari e la percentuale è destinata a crescere) parte della propria campagna elettorale, col proposito di abbassare di un terzo le tasse universitarie, da novemila a seimila sterline. Ma non ha ancora specificato come.