Enrico Berlinguer è morto nel 1984, ma molte delle sue idee-forza possono essere utili ancora oggi. Anche per quel che concerne la politica internazionale – vera e propria passione del comunista sardo e palcoscenico centrale della sua attività politica – e in particolare lo scenario europeo, le prospettive della sinistra oggi in Europa, dopo la vittoria di Tsipras in Grecia. È a partire da queste convinzioni che Futura Umanità, l’associazione nata per studiare e diffondere «la storia e la memoria del Pci», insieme alle fondazioni e agli istituti culturali della Linke e di Syriza e al gruppo parlamentare europeo Gue/Ngl, hanno promosso un incontro internazionale in programma per venerdì prossimo a Roma (Auditorium di via Rieti 11, dalle ore 9.30). Sia per ricordare l’eurocomunismo di Berlinguer, il suo dialogo con le correnti di sinistra delle socialdemocrazie europee, il suo proficuo incontro con Altiero Spinelli; sia per valutare il cammino fatto e da fare per «la costruzione di una sinistra nuova in Europa», come recita una sessione del convegno.

Oltre l’esperienza sovietica

Berlinguer vedeva nel capitalismo un sistema che rendeva strutturalmente instabile la pace e a rischio la sopravvivenza del genere umano e del suo ambiente; la fonte insuperabile di crisi economiche, di fenomeni di disoccupazione di massa e di impoverimento, di sfruttamento e alienazione dei lavoratori. E considerava endemici i rischi di autoritarismo e fascismo, tanto da scrivere che «proprio per salvare la democrazia, per renderla più ampia, più forte, più ordinata possibile bisogna superare il capitalismo». Nel contempo, al centro dell’azione di Berlinguer vi è stata, soprattutto dopo l’invasione di Praga del 1968, la convinzione che il modello di socialismo per cui potevano essere chiamate a lottare le classi subalterne dei paesi a capitalismo avanzato non poteva che essere diverso da quello del socialismo autoritario nato con l’esperienza sovietica.

Quali connotati doveva avere allora questa società socialista per la quale si batteva Berlinguer? Pur riconoscendo i meriti storici della Rivoluzione russa del ’17 e dell’Urss, egli affermava che i comunisti italiani avevano «coscienza dei limiti» di quella esperienza, innanzitutto del fatto che essa negava alcune fondamentali libertà politiche. Non solo Berlinguer, in polemica coi sovietici, dichiarò ripetutamente che il Pci intendeva avanzare verso il socialismo «su una via democratica»: egli arrivò a sostenere proprio a Mosca, nel 1977, in occasione dell’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, che la democrazia è un «valore universale» e che dunque una società socialista non può essere davvero tale se non è democratica. Ovviamente anche per la democrazia – sosteneva Berlinguer – non esiste un unico «modello» che «vada bene per tutti». Il parlamento è dunque uno strumento utile per esercitare la volontà popolare, ma può essere affiancato da altri strumenti democratici, più diffusi e più capaci di favorire la partecipazione.

Non erano solo e tanto le forme della rappresentanza a definire per Berlinguer la democrazia, poiché esse possono variare, a seconda delle tradizioni, dei costumi, delle esperienze storiche. Quello che era indispensabile per Berlinguer era «il riconoscimento del valore delle libertà personali e della loro garanzia; i principi della laicità dello Stato, della sua articolazione democratica, della pluralità dei partiti, dell’autonomia del sindacato, delle libertà religiose, della libertà della cultura, dell’arte, delle scienze… una pianificazione che faccia leva sulla coesistenza di varie forme di iniziativa e di gestione pubblica e privata».
Era questa via di costruzione del socialismo nella libertà il cuore della proposta politica che fu detta dell’eurocomunismo prima e poi della «terza via», intesa come una via diversa sia dal socialismo autoritario sovietico, sia dalla socialdemocrazia che aveva rinunciato a cambiare il sistema capitalistico. Bisognava insomma aprire una «terza fase» della lotta per il socialismo, dopo che quelle della Seconda e della Terza Internazionale avevano esaurito la loro «spinta propulsiva».

Profondamente intrecciata con la proposta eurocomunista appare la nuova attenzione per la Comunità europea (come si chiamava allora la Ue) che i comunisti italiani dimostrano negli anni Settanta. Berlinguer vedeva l’Europa come fondamentale in primo luogo per la lotta per la pace, per la distensione internazionale, una «distensione dinamica» che non fosse accettazione dello status quo, ma permettesse anzi di superare le rigide delimitazioni imposte dagli accordi di Yalta. Ma anche per il tema, connesso, di un diverso governo mondiale delle risorse e di «un nuovo ordine economico internazionale», che non condannasse alla morte per fame e per sete milioni di persone: questo terreno, come è noto, costituì il luogo di incontro con due leader socialdemocratici di sinistra come il tedesco Willie Brandt e lo svedese Olof Palme.

Il rapporto con Spinelli

Certo Berlinguer non ignorava il fatto che il processo di unità europea fosse anche condotto da forze legate «a strutture capitalistiche che noi vogliamo trasformare», ma pensava che la sfida andasse accettata, «portando la lotta di classe a livello europeo». Una lotta che aveva come obiettivo la democratizzazione della Comunità europea, la costruzione di «un’Europa dei popoli e dei lavoratori», come presupposto perché il «socialismo nella libertà» divenisse la via maestra per arrestare il declino del Vecchio Continente. Anche perché la soluzione – affermava Berlinguer – non poteva essere quella di chi, anche allora, predicava il ripiegamento nei vecchi Stati nazionali.

Su queste basi avvenne l’incontro con Altiero Spinelli, che si batteva per passare «da un semplice “mercato comune” a una “unificazione politica dell’Europa”». Il padre del federalismo europeo fu eletto nelle liste del Pci sia nel parlamento italiano che in quello di Strasburgo, e del gruppo comunista europeo divenne anche vicepresidente, intessendo con Berlinguer un dialogo fatto di qualche dissonanza, ma soprattutto di convergenze e battaglie comuni.

Di questi temi, di evidente attualità, parleranno venerdì a Roma studiosi e politici italiani, tedeschi, greci, francesi e spagnoli. Tra essi Heinz Bierbaum (Die Linke), Paolo Ciofi, Gianni Ferrara, Eleonora Forenza, Gilles Garnier, Haris Golemis (Syriza), Alexander Höbel, Rita Maestre (Podemos), Curzio Maltese, Maite Mola (Izquierda Unida), Gerard Streiff, Aldo Tortorella e molti altri. Alexis Tsipras, che a dicembre aveva promesso la sua partecipazione, ora ha, per fortuna sua e anche nostra, altro da fare. Ma si tratta di una battaglia comune.