È curioso il fatto che Sara Stridsberg esordì con alcuni saggi di carattere giuridico sulla natura del patriarcato e sulla conflittualità di genere. Si deve a lei, peraltro, la traduzione svedese del trattato politico «Scum», un «manifesto per l’eliminazione del maschio» nel quale la femminista americana Valerie Solanas esponeva in termini espliciti – era il ’68 – la sua teoria sulle differenze di genere e la supremazia delle donne. L’esordio letterario di Stridsberg, invece, dovette attendere il 2004: il romanzo era titolato Happy Sally, e era dedicato a Sally Bauer, la prima svedese che nel 1939 attraversò lo stretto della Manica. Nel libro successivo, Drömfakulteten (Il potere dei sogni) il patriarcato figura in una parodia, che per protagonista ha, appunto, la figura di Valerie Solanas. Con Darling River, poi, l’autrice svedese rivisita il personaggio della Lolita di Nabokov.

Appena uscito da Mondadori, La gravità dell’amore (traduzione di Andrea Stringhetti, pp. 311, euro 19.00) è il quarto romanzo di Sara Stridsberg, il cui titolo originale Beckomberga. Ode till min familj, ovvero Beckomberga. Ode alla mia famiglia, aiuta tanto a inquadrare la storia che vi viene narrata quanto a intendere la direzione del progetto messo a punto dalla scrittrice, di cui il pubblico italiano aveva potuto leggere solo L’agenda Braun, un racconto sulle ultime ore di Eva Braun incluso in una fortunata silloge di gialli intitolata appunto GialloSvezia.

Sebbene il tessuto di questo libro includa una serie di elementi che vanno dall’essere genitori alla sessualità, all’affettività, è tuttavia innegabile che il nucleo generatore dell’intera narrazione resti la follia. Beckomberga è infatti il nome di un ospedale psichiatrico del quale in questo romanzo si racconta la storia, una storia che accoglie e genera le singole vicende soggettive dei pazienti, dei parenti e del personale medico e paramedico che tra quelle mura lavora.

Un mondo intero è racchiuso, infatti, in questo edificio disegnato dall’architetto Carl Westman, che venne inaugurato nel 1932 e chiuso nel ’95, un arco di anni che coincide con quelli dell’ascesa del welfare state. Beckomberga rimanda a una realtà che «viene fuori dal terreno come un feto dal proprio involucro embrionale insanguinato, un maestoso complesso ospedaliero simile a un castello dove prima c’era solo il bosco: uccelli, alberi, cielo, acqua».

Progettato per ospitare qualcosa come 1600 malati, prevede uno staff che arriva a contare 800 persone. Alcuni capitoli offrono dati molto precisi sulla conformazione dell’edificio e sul numero dei pazienti nelle varie fasi della vita dell’istituto, che di fatto è equiparabile a una piccola città: mura perimetrali, aree destinate alla vita in comune, agli svaghi, al verde. In questo spazio si offre protezione ai malati psichiatrici, i quali lì trovano un riparo rispetto alle angosce generate dai problemi che ogni giorno propone la vita sociale e familiare: angosce che i pazienti internati a Beckomberga erano abituati a placare con pratiche autodistruttive: bere smodatamente, abbandonarsi al disordine e alla sporcizia, trascurare figli, mogli, lavoro e tutto ciò che fa di un cittadino un membro sano della società, una sanità che peraltro include l’esplosione nucleare che coinvolge Chernobyl e Odessa.

Più che muoversi intorno ai personaggi che lo popolano, il fulcro della macchina narrativa ruota dunque intorno all’ospedale, intendendo restituire la memoria degli ultimi pazienti che vi hanno soggiornato. A loro infatti, e ai loro parenti, il romanzo è dedicato.

Una oscillazione costante tra due istanze, quella narrativa e quella documentaria, informa tutto il romanzo, e soprattutto la sua prima parte; perciò il lettore procede cercando di farsi un’idea dei rapporti che corrono tra i personaggi, tentativo reso ancora più difficile dal fatto che Sara Stridsberg alterna i punti di vista. Tra i personaggi, un rilievo speciale spetta a Jim, il padre della narratrice, che fin da bambina trascorre i suoi pomeriggi nell’istituto, tenace nel far visita a un genitore privo di legami con la realtà circostante e concentrato nella contemplazione di un vuoto senza nome, capace di generare un dolore immedicabile.

Altri personaggi giocano un ruolo decisivo: Lone, madre della narratrice il cui nome è Jackie, e moglie di Jim; l’abile infermiera; la paziente seducente e seduttiva della quale tutti gli uomini dell’ospedale (medici compresi) si innamorano; lo psichiatra che applica una sua teoria non proprio ortodossa, ogni tanto portando fuori un paziente e permettendogli di trascorrere serate ‘normali’, a bere vino e a passeggiare in città.

La forza della scrittura di Sara Stridsberg risulta potenziata da una marcata tensione poetica, che in vari momenti domina sia il piano narrativo che quello testimoniale, e alcune battute contengono dei veri cristalli di luce aforistica: «Come fai a sapere che sono pazzo?», «Io sto bene. La vita è un lutto», «Se non sei libero adesso, non lo sarai mai».
Connota questa scrittura anche una dichiarata devozione alle potenze naturali, rappresentate come sempre incombenti sugli individui e sui loro mondi.

Ci sono momenti in cui i personaggi si dispongono a guardare la notte e ci sono tramonti «lenti, quasi eterni, come se l’ultima luce potesse essere benissimo la prima». Quando questa scrittrice svedese parla di «erba soffice» di neve o di uccelli marini lo fa con un lirismo secco e privo di aloni romantici, quasi fosse un atto dovuto con il quale si riconoscono realtà ultraumane, di cui è inutile domandarsi la ragione.

Il basamento su cui regge l’intero libro coincide con la linea di confine tramite la quale si mantengono separati due spazi, che per i pazienti restano incompatibili. Il punto è che solo all’interno di Beckomberga i malati trovano la loro felicità. Per tre volte nel corso del romanzo Jim afferma di trovarsi bene solo dentro il manicomio; fuori, invece, viene assalito da furie interiori che fanno strazio della sua volontà, del suo amore per la moglie e per la figlia, di ogni sua speranza nel futuro. Quanto a Olof, che sarà l’ultimo paziente ad abbandonare la struttura, egli è semplicemente atterrito all’idea di doversi ritrovare in un fuori fitto di insidie e sostanzialmente incomprensibile.

La chiave del romanzo sta nell’atteggiamento con cui Jackie, prima come bambina poi da adulta, madre a sua volta di un bambino, affronta la malattia del padre, l’allontanamento della madre e il contesto del manicomio. Si rivela qui, infatti, a cosa punti il progetto letterario dell’autrice, che mette a tema la forza pacata di una creatura femminile, capace di sopportare la vista e la vicinanza del dolore altrui, di sentirne addosso il peso e di restare accanto a chi – il padre, la madre, il proprio figlio, gli altri pazienti – per debolezza, etilismo o squilibrio psichico vede franare le proprie difese.
Jackie è infatti l’unica persona che, negli anni, continua a varcare in un senso e nell’altro la linea di confine tra la città dei sani e quella dei malati: solo lei possiede le risorse per guardare dritto davanti a sé e incontrare il riflesso di quanto di peggio è stato partorito nel XX secolo; ma, più vicino a sé, riesce a vedere anche i ragni primordiali che popolano gli incubi di suo padre, schiavo dell’acquavite. Qui la lezione di Nabokov sembra giungere a compimento. Con una scrittura che taglia via l’intrusione di ogni psicologismo, Sara Stridsberg dà vita a una figura femminile intensamente poetica e al tempo stesso dotata di una grande forza: una donna nella quale, stando al titolo originale del romanzo, è probabile sia presente qualche tratto autobiografico, accuratamente decantato e depurato da ogni minima incrostazione sentimentale.