Il rapporto tra Rete e democrazia è uno dei fenomeni più studiati dalle scienze sociali contemporanee. Questo accade perché, sin dal loro apparire, questi mezzi di comunicazione si caratterizzano per l’interattività e la possibilità data agli utenti di comunicare senza i tradizionali filtri alla circolazione di opinioni e contenuti del passato (mass media, partiti e intellettuali). Se nell’Ottocento il fantasma che «s’aggira per l’Europa» era stato il comunismo, il Novecento ha nutrito le proprie classi dirigenti del culto della delega e del rifiuto della partecipazione diretta al governo della cosa pubblica, sino ad arrivare ad un punto, alla fine del XX secolo, nel quale il nuovo fantasma che «s’aggira» è rappresentato dalle ondate di destabilizzazione e di riassestamento delle post-democrazie contemporanee favorite dall’ascesa delle tecnologie digitali.

Di destabilizzazione e riassestamento si deve parlare perché l’orizzonte della democrazia diretta, partecipativa e deliberativa, come pratica di sostituzione delle tradizionali forme di democrazia rappresentativa, si è presto rivelata come uno dei possibili esiti legati allo sviluppo della Rete, ma senz’altro né l’unico né tanto meno il più probabile: se ad un primo periodo pioneristico di ascesa di Internet corrispondeva un forte legame tra le culture tecno-libertarie e hacker dei primi utenti\sviluppatori della Rete (tra i quali forti erano ancora gli echi della cultura del Sessantotto statunitense) e interpretazioni quasi palingenetiche delle potenzialità democratiche della Rete, si è passati ad una «fase lunga» nella quale la moltiplicazione delle pratiche politiche in Rete ha diffuso un sostanziale pessimismo circa la possibilità di realizzare una democrazia diretta digitale. Più sono cresciuti in tutto il mondo gli utenti della Rete più è entrata in crisi la tradizionale distinzione tra vita on-line e vita off-line: il mondo ha fatto irruzione nella Rete e viceversa, polverizzando l’avanguardia culturale dei primi tempi e mostrando tre lati oscuri.

L’ora quotidiana d’odio

Il primo è l’utilizzo propagandistico che di essa si può fare, dando l’illusione agli utenti\cittadini di partecipare realmente alla candidatura e alla vita politica di un leader o di un soggetto politico organizzato, quando in realtà i singoli sono coinvolti in una nuova forma di manipolazione; una risorsa che può essere utilizzata con grande successo anche da soggetti anti-democratici. Il secondo lato oscuro è rappresentato dalla spinta al rafforzamento del potere carismatico del leader, al conformismo, al populismo, alla superficialità del commento e del contenuto, condiviso tra cerchie ristrette e autoreferenziali di simili. L’esito è la moltiplicazione dell’«ora dell’odio» immaginata da Orwell in 1984 contro il proprio nemico (la casta, l’immigrato, l’omosessuale e così via).

C’è infine l’ascesa mascherata di una dimensione pop e commerciale dello stesso agire politico: nel momento in cui un utente si esprime su un social network ha l’impressione di riaffacciarsi in una nuova piazza digitale, mentre invece si muove all’interno di uno spazio di proprietà di una corporation privata; un luogo dove si può essere espulsi, controllati e monitorati secondo le regole del diritto privato e non di quello pubblico. Così, critici autorevoli come Jürgen Habermas sostengono che lungi dall’essere il nuovo vettore della democrazia diretta, il web 2.0 sarebbe in realtà l’esatto opposto di quella sfera pubblica che proprio il filosofo e sociologo tedesco vede alla base di qualunque processo democratico.

Due libri recentemente pubblicati aiutano però ad elaborare una visione meno unilaterale del rapporto tra democrazia e Rete, mostrando come la realtà sia più complessa e sfumata: è vero che le «rivoluzioni arabe» partite dalla Tunisia o i vari movimenti degli indignati in Occidente non hanno prodotto un cambiamento in senso radicalmente democratico degli Stati. Tuttavia, esse hanno dispiegato attraverso la Rete un potenziale critico in grado di mettere in crisi la politica tradizionale e di gettare le basi per la nascita di alcuni nuovi soggetti politici (come «Podemos» in Spagna).

Il primo volume è stato scritto da un giovane filosofo tedesco di origine coreana, Byung Chul Han: Razionalità digitale. La fine dell’agire comunicativo (GoWare, Euro 3,74). Il presupposto fondamentale del libro è quello tipico dei mediologi postmodernisti: i «barbari», vale a dire gli individui anti-sociali e narcisisti che abitano le Reti, non devono essere respinti dalla politica ma inclusi al suo interno attraverso un cambio di paradigma nelle pratiche democratiche. Per il filosofo è possibile pensare e praticare la democrazia senza far ricorso ad uno scambio comunicativo e argomentativo come prevede la teoria di Habermas: rielaborando il concetto di volontà generale proposto da Rousseau, si può immaginare la formazione di una decisione attraverso il voto espresso su un tema da singoli individui isolati.

L’onda dei nativi digitali

Questa volontà generale è pre-argomentativa e si forma per somma. Se la proposta di Han si fermasse qui essa non sarebbe molto originale. Il filosofo si spinge però più in là: i soggetti legittimati a decidere non sarebbero tutti i cittadini ma gli insiemi sociali formati dagli esperti e dalle persone interessate ad una determinata questione.

Nella visione di Han riemerge così un’interpretazione elitaria della volontà generale e sostanzialista della democrazia. Nel rilanciare su nuove basi le potenzialità partecipative della Rete, Han trascura inoltre sia i pericoli legati ad una auto-selezione poco istituzionalizzata dei vari gruppi deliberativi, sia il possibile cedimento di questi insiemi alla propria emotività, non mediata da alcuna struttura. Il potenziale critico della Rete espresso attraverso commenti e prese di posizione di individui isolati è certamente una risorsa nella riformulazione di una nuova funzione politica ed intellettuale ma questo non si trasforma automaticamente in una pratica neanche astrattamente pensabile come più efficiente e giusta delle attuali forme di democrazia rappresentativa. Proprio il tema del potenziale critico della Rete e del suo radicamento in dinamiche sociali più ampie, emerge dalla lettura di un secondo libro: Giovani nella rete della politica (Franco Angeli, Euro 25) di Cecilia Crisofori, Jacopo Bernardini, Sara Massarini. Attraverso un lunga e accurata indagine sui commenti scritti in Facebook da persone comprese tra i 18 e i 36 anni nei giorni delle elezioni del 2013, le tre sociologhe mostrano, tra l’altro, come la politica vissuta in Rete da questi giovani italiani si eserciti attraverso una critica argomentata e ricca di citazioni, delle classi politiche. Sotteso a questo orientamento è il conflitto generazionale: nella maggior parte dei casi, questa razionalità critica si dispiega da una presa di distanza nei confronti di quell’Italia e di quell’italiano medio appartenente alle generazioni più anziane, giudicato come prevaricatore, escludente, incolto e responsabile dell’inarrestabile declino del paese. Al contrario di quello che sostiene Han ma anche lo stesso Habermas, per le tre sociologhe la politica in Rete di questi nativi digitali riattiva non tanto forme già pronte per l’uso di democrazia diretta, quanto una nuova sfera pubblica nella quale argomentazione ed emozioni pubbliche (come l’indignazione) si intrecciano strettamente.

In conclusione, il rapporto tra politica e rete non è determinato e non può essere letto né da un punto di vista esclusivamente ottimista né pessimista. Al contrario, essendo coscienti che la più tipica forma di espressione di questa politicità è forse oggi il riarticolarsi di una funzione critica diffusa, occorre ricercare volta per volta le radici sociali e non solo tecnologiche di quei soggetti che, non trovando spesso piena cittadinanza nella politica istituzionalizzata e nelle rappresentazioni massmediatiche, utilizzano le potenzialità del web 2.0, muovendosi tra mille contraddizioni (non ultima, il già ricordato carattere privatistico dei social network).