La notizia piomba come un drone nel via vai della redazione, allora in via Tomacelli: Giuliana Sgrena, inviata del manifesto in Iraq è stata rapita a Baghdad. Malgrado lo sconcerto, si ricostruiscono le ore di Giuliana precedenti al sequestro, si contatta la Farnesina, circolano ipotesi e timori. Il gruppo Organizzazione per la Jihad islamica rivendica il sequestro via internet e intima all’Italia di ritirare le truppe dall’Iraq entro 72 ore. La redazione si riempie di colleghi e telecamere. Il giorno dopo, secondo comunicato di rivendicazione, sempre via internet, reca la firma di una Organizzazione della Jihad di Rafidain. Minaccia di uccidere l’ostaggio se il governo italiano, «il cui capo è il criminale Berlusconi», non annuncerà il ritiro dall’Iraq «entro 48 ore». In serata, un «ultimo» comunicato della Jihad, in attesa che la «commissione giuridica» decida in tempi brevi la sorte di Giuliana Sgrena. Poi 15 giorni di appelli e di attesa. Da Baghdad, si fa sentire il Consiglio degli Ulema sunniti per chiedere la liberazione della giornalista e per bollare come “irragionevoli” le richieste dei suoi rapitori. Al Jazeera diffonde un comunicato del gruppo di Abu Musab al-Zarqawi che nega ogni responosabilità nel rapimento. La Jihad islamica annuncia che Giuliana Sgrena non è considerata una spia, quindi sarà liberata.

L’8 febbraio, da un sito islamista una doccia fredda: le Brigate dei Mujaheddin in Iraq annunciano l’uccisione di Sgrena dopo aver verificato “che spiava i mujaheddin per conto dei crociati Usa”. Nella redazione del manifesto si è lavorato fin da subito per documentare il lavoro di Giuliana, pacifista storica e contraria alla guerra in Iraq. Al Jazeera trasmette il video che documenta il lavoro di Giuliana e che chiede la sua liberazione.

Intanto, il volto serio del direttore Gabriele Polo entra nelle case degli italiani: l’appello per liberare Sgrena si diffonde sui tre canali nazionali. Il 10 febbraio, i rapitori diffondono un nuovo comunicato: il governo italiano ha “48 ore per annunciare il ritiro dall’Iraq”, è la loro condizione “per dare informazioni sulla sorte della giornalista”. Il 15, Franco Sgrena, il padre di Giuliana, lancia un appello per chiedere notizie della figlia ai rapitori. Il giorno dopo, la tv di Dubai, al-Arabiya trasmette un video di forte impatto emotivo: Sgrena, in lacrime e con il volto provato dalla prigionia, si rivolge a mani giunte al suo compagno Pier Scolari e a tutti gli italiani. In italiano e in francese, implora: “Aiutatemi, aiutatemi, la mia vita dipende da voi, fate pressione sul governo italiano perchè ritiri le truppe”. La giornalista indossa una casacca verde. Sulla parete alle sue spalle compare la scritta, fino ad allora sconosciuta, “Mujaheddin senza confini”.

Il 19 febbraio, al Jazeera diffonde un altro video che documenta il lavoro di Giuliana attraverso le fotografie da lei scattate al popolo iracheno martoriato dalla guerra. Le foto scorrono anche sullo schermo gigante allestito per accogliere il corteo che, a Roma, riunirà 500.000 persone. Due le principali parole d’ordine: “Stop the war” e “Liberate Giuliana”.

Il 23 febbraio, l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi riceve i famigliari di Sgrena e lancia un accorato appello ai rapitori: “Liberatela! Liberatela!”.
Il 4 marzo al Jazeera annuncia la liberazione di Giuliana. Mentre la stampa raccoglie i commenti di famigliari, sindacati e uomini politici, mentre in redazione si sta già procedendo a un brindisi e si aspetta il ritorno di Giuliana, arriva però un’ultima doccia fredda: una telefonata al direttore Polo annuncia la morte di Nicola Calipari, il funzionario del Sismi che ha fatto scudo col suo corpo per proteggere la giornalista liberata. Anche Giuliana è rimasta ferita sull’auto presa di mira a un posto di blocco da soldati Usa, insieme a un altro mediatore (illeso un terzo).

4 marzo 2015: dieci anni dal rapimento. Una crisi ha sconvolto il manifesto, che c’è ancora però. E Giuliana è ancora con noi. Che cosa resta di quel lungo mese? Il sacrificio di Calipari, funzionario più attento a comprendere che a punire, caduto nell’esercizio del proprio dovere. Un messaggio appannato dal pasticcio politico e simbolico di un paese che inalbera più volentieri il fucile che la bandiera arcobaleno della pace.